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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/70

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Mentre l’afflitta Invidia, e dispietata
À più poter la misera fagella,
     Fa, che nel suo pensier contempla, e guata
     L’imagin di quel Dio leggiarda, e bella;
     Le pone innanzi à gli occhi fortunata
     Sopra d’ogni altra donna la sorella,
     Che sfogherà l’amoroso desio
     Con così vago, e così bello Dio.

Poi che di fiato putrido, e veneno
     Ha l’infelice Aglauro infetta, e guasta
     L’ Invidia, e vede aver servito à pieno
     La bellicosa Dea, prudente e casta,
     Ritorna à l’antro suo di serpi pieno,
     À pascer nova vipera, e cerasta,
     E lascia Aglauro à tutto invidiosa,
     Ch’ Herse à sì bello Dio si faccia sposa.

Giorno e notte s’affligge, e si tormenta,
     E c’habbia tanto ben, le scoppia il core,
     Ma dice pian perch’altri non la senta,
     E sfoga sotto voce il suo dolore.
     Come una pira, che non sia ben spenta,
     Ch’arde di dentro, e non appar di fuore,
     Essala, e sfoga in qualche parte, e fuma,
     E dentro à poco à poco si consuma.

Ó quante volte invidiosa, e trista
     Pensò di propria man darsi la morte,
     Più tosto che patir, che la sua vista
     Vedesse la sorella in sì gran sorte.
     S’affligge, si rammarica, e s’attrista,
     Che vede ch’ella è più stimata in corte.
     Si duol, c’habbia tal gratia, habbia tal faccia,
     Ch’à tutti più di lei sia grata, e piaccia.

E quanto più ci pensa, più s’accora,
     Che membra habbia à goder tanto leggiadre.
     E non men l’avelena, e l’addolora,
     Che di figli d’un Dio debbia esser madre,
     E vuol più tosto procacciar che mora,
     E dire il tutto al lor rigido padre.
     Sù l’uscio al fin di lei trista soggiorna,
     Per discacciar Mercurio, se ritorna.

Mercurio, come saggio il tempo apposta,
     Che sola Herse si stia ne la sua stanza,
     E vien con gran tesor per la risposta,
     Pien di felicità, pien di speranza.
     Aglauro come vede, ch’ei s’accosta,
     Con villana, e non solita creanza
     Lo scaccia, e mostra farne poca stima,
     E più non l’accarezza come prima.

Allhora il cauto Dio pien di malitia
     Scopre il tesor, ch’ ella gli chiese, e ’l mostra;
     Come ella il vede, aggiunge al cor tristitia,
     Che in lei l’Invidia, e l’Avaritia giostra.
     Al fin forza è, che perda l’Avaritia,
     E l’ Invidia habbia il premio de la giostra.
     Non può patir l’invidiosa, e fella,
     Ch’ei goda di quel ben, ne la sorella.

Tutta la sua facondia, et eloquenza
     Con grande affetto usa il figliuol di Giove,
     Ma quella à più poter fa risistenza,
     Ne s’addolcisce punto, ne si move.
     Non farò, dice à lui, di qui partenza,
     Se prima te non scaccio, e mando altrove.
     Hor sù, disse ei, mi piace, vo’ che ’l facci,
     Che tu stia sempre qui, se non mi scacci.

Tocca col suo baston la chiusa porta,
     E quella al primo tratto s’apre, e cede,
     Riman l’afflitta Aglauro mezza morta,
     Ch’aprir la porta, e dopo entrare il vede,
     Sapendo quanto à lei tal fatto importa,
     Si move per levarsi donde siede,
     Ma i piè, se ben le braccia sforza, e scuote,
     Per troppo gravità mover non puote.

Ella d’alzarsi pur prova, e contende,
     E ponvi ogni suo sforzo, ogni sua cura.
     Non si piega il ginocchio, e non s’arrende,
     Che già indurato ha il nervo, e la giuntura.
     Quel mortal freddo à poco à poco prende
     Quel corpo, e già s’accosta à la cintura,
     Già ne la parte fredda, e senza lena
     La carne hanno un color, l’unghia, e la vena.