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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/71

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Sì come l’ incurabil cancro ingordo
     Serpendo rode un corpo, e sempre acquista,
     E ’l dente suo pernicioso, e sordo,
     Rende sempre maggior la parte trista,
     Tanto, che tutto il face infetto, e lordo,
     Così quel male il ben propinquo attrista,
     E l’ insensibil parte và crescendo,
     Del vivo più vicin sasso facendo.

Già duro ha il petto, e ’l rispirar vitale
     Le toglie il troppo in su’ cresciuto sasso,
     Non provò di parlar, ne fece male,
     Però, che chiuso havria trovato il passo.
     La pietra tanto in su crescendo sale,
     Che fa ne l’alto quel che fe nel basso.
     La nera mente sua nera anchor fece
     La nova statua, come inchiostro, ò pece.

Quell’atto, quel dolore, e quello affanno,
     C’hebbe volendo alzarsi, in lei sì vede,
     E pontando le man sopra il suo scanno,
     Mostra un gran sforzo per levarsi in piede,
     Ma come havesse ivi inchiodato il panno,
     Par, che non possa alzarsi da la sede,
     E sì ben quella statua il tutto esprime,
     Che non vi ponno aggiunger le mie rime.

Il celeste corrier si torna dove
     Con desiderio, et ansia l’attendea
     Il superno Rettor, suo padre Giove,
     Che gran bisogno del suo aiuto havea.
     Come io ti voglio in ciel, tu fuggi altrove,
     Giove, à cui novo amor l’anima ardea,
     Disse; Deh non haver te tanto à core,
     Che ’l tuo ponghi in oblio padre, e signore.

Mercurio allhor per iscusarsi in parte.
     E, perche Giove ha gran piacer d’udire,
     Quando tal volta egli dal ciel si parte,
     L’essito, e la cagion del suo partire,
     Volea tutto narrar parte per parte,
     Ma Giove, c’havea voglia d’esseguire
     Un novo amor, non volle, ch’ei seguisse,
     Ma, fattolo tacer, così gli disse.

Non è tempo di dir messo mio fido
     I bei diporti tuoi di questi giorni,
     Che per un novo amor, ch’ in me fa nido,
     È forza, che di novo in terra torni:
     Vanne in Fenicia, e fa scender su ’l lido
     L’armento regio, e fa, ch’ ivi soggiorni,
     Fa, che sì presso al mar dal monte scenda,
     Che’l mormorar, che fa Anfitrite, intenda.

Il nipote d’Atlante obedì tosto.
     E l’armento regal mandò su ’l lito.
     Questo, non molto à la città discosto,
     Era uno ameno, e dilettevol sito.
     Concorse à questo loco, à Cipro opposto.
     Molte eran figlie allhora atte al marito
     Con la figlia del Re, la cui beltade
     Non hebbe pari al mondo in quella etade.

Di questa il padre Agenore fu detto.
     E di Tiro, e Sidonia fu Signore.
     La figlia Europa hebbe sì grato aspetto,
     Ch’accese del suo amor l’alto motore.
     Ahi come stanno male in un soggietto,
     Con grave maestà, lascivo amore.
     Come opran, ch’altri fa (sì mal si regge,)
     Cose fuor di misura, e fuor di legge.

Quel, che dà legge à gli alti Dei del cielo,
     Quel, ch’ad un cenno il mondo fa tremare
     Chi con sua pioggia, e con suo ardente telo.
     Può sommerger la terra, ardere il mare,
     Vestì mentito, e vergognoso pelo,
     Per lascivo pensier, per troppo amare,
     Fuor d’ogni degnità, d’ogni decoro
     Prese per troppo amor forma d’un Toro.

E misto fra ’l real bovino armento,
     D’intorno à lei vagar diletto prende.
     La giogaia, che pende sotto al mento,
     Infino à le ginocchia si distende.
     Ne l’humil fronte sua quello spavento,
     Che suol ne’ tori star, non si comprende,
     Il manto suo di neve esser si vede,
     Che non ha guasta Sol, vento, ne piede.