Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/78

Da Wikisource.

     À pena pon fuor di quell’antro il piede,
     Dove stà de le Muse il sacro fonte,
     Cadmo, che solo un bel giuvenco vede,
     C’ha volto il tergo à quel famoso monte,
     Dando al consiglio pio d’Apollo fede,
     Il passo verso lui drizza, e la fronte,
     Febo adora fra se, ch’auttor ne fue,
     Con ritenuto piè seguendo il bue.

Già le contrade, che’l Cefiso bagna
     Havean lasciate, et eran giunti dove
     In una amena, e fertile campagna
     Dovea Cadmo fondar le mura nove,
     Qui volse il volto à quel, che l’accompagna,
     À quel, cui tolse la sorella Giove.
     Quel bue, che non curando andar più avante
     Mugghiando verso il ciel fermò le piante.

Poi c’hebbe il ciel del suo mugghiar ripieno,
     Fermò ne i Tirij la fronte superba,
     Come dicesse lor, questo è il terreno,
     Questa è la patria, che per voi si serba.
     Nel loco poi più nobile, et ameno,
     Ch’elegger seppe, si colcò sù l’herba,
     Forse per dare à lor più certo segno,
     Ch’ ivi dovean fondare il novo regno.

Ringratia Cadmo la fortuna, e ’l cielo,
     Che vede il bel giuvenco, che s’atterra,
     E pien di santo, e di divoto zelo
     Corre à baciar la peregrina terra,
     Saluta l’aer sano al caldo, e al gielo,
     Che scorge amico à la futura terra,
     Saluta i lieti campi, e i monti ignoti,
     Co i seguaci di lui non men divoti.

Prima i debiti honori à Febo rende,
     Poi con più diligenza al Tiro piacque
     Far sacrificio à Giove, e farlo intende
     Lì dove à punto il bel giuvenco giacque.
     À quel divin misterio ogn’ uno accende,
     Poi manda tutti per trovar de l’acque
     À investigare à piè de i novi monti,
     Dove diano acque vile i sacri fonti.

Non molto lungi una gran selva antica
     Facea di spessi rami à se stessa ombra,
     Che la scure crudele, et inimica
     Mai non havea d’alcuna pianta sgombra,
     Qui dove il bosco più folto s’ intrica,
     Una rustica grotta il centro ingombra,
     Rustico un’ humile arco ha ne la fronte,
     Rustica è dentro, et ha nel mezzo un fonte.

Quivi era ascoso un martial serpente,
     Di creste, e d’oro horribimente adorno,
     Ch’in tre partite havea distinto il dente,
     E su la fronte un bellicoso corno.
     Il suo collo elevato, et eminente
     Ovunque vuol, snoda, e raggira intorno,
     E fa scherno col collo agile, e leve
     Al dorso suo più faticoso, e greve.

Ne gli occhi un così horribil foco splende,
     Che l’huom non puote in lui fermar la vista,
     Di fuor la lingua triforcata rende,
     E con sibilo horrendo il mondo attrista.
     Quando di più color l’ali distende,
     Prestezza, e forza al pigro corpo acquista,
     Noce assai con la lunga, et agil coda,
     La qual non men del collo aggira, e snoda.

Non fa il piè nel ferir minore effetto,
     Che l’unghia ha curva, e lacera, e divide.
     L’aer, che fuor la bocca essala infetto,
     L’herbe, e le piante, e gli animali uccide.
     Hor qual fia mai sì valoroso petto,
     Ch’estinguer possa le membra homicide ?
     Ch’ogni parte, ch’è in lui, nocer si vede,
     La coda, il corno, il fiato, il dente, e ’l piede.

Gli sfortunati Tirij, che non sanno,
     Che quivi il fier serpente ascoso stassi,
     Lieti, e senza sospetto se ne vanno,
     E pongon dentro gl’ infelici passi,
     Ma risonar la fonte à pena fanno
     Con l’urna, ch’à tuffar ne l’onda dassi,
     Che l’ali sibilando il drago scuote,
     E ’l collo inalza, e stende più che puote.