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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/79

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Come il romore ode la gente Tira,
     E vede quel dragon tanto inalzarsi,
     Che minaccioso, et empio gli rimira,
     E guarda à chi di lor debbia aventarsi,
     Da gli estremi del corpo si ritira
     Il sangue al core, e lascia i membri sparsi,
     D’un subito tremor, che tanto abonda,
     Che cadon lor di mano i vasi, e l’onda.

Mentre tiene il timor ciascun sospeso
     S’han da tentar la fuga, ò pur la spada,
     Fù dal dragone un ne la testa preso,
     Per torgli à un tratto l’una, e l’altra strada,
     Cadere il lascia poi morto, e disteso
     Il mostro, onde ogn’un fugge, e più non bada.
     Vede il dragon quel, che tal fuga importa,
     E corre ratto anch’ei fuor de la porta.

Sì come un fiume, ch’esce del suo letto
     Per troppe piogge rapido, et errante,
     À ciò, che l’ impedisce, dà di petto,
     E schianta, e rompe le più grosse piante,
     Tal quel dragon pien d’ ira, e dispetto
     Seguendo quei, che gli han volte le piante,
     Per forza apre le macchie, e rompe e passa,
     E chi ceder non vuol, schiantato lassa.

Altri uccide co i denti, e altri col fiato,
     Quei straccia l’unghia, e quei trafora il corno.
     Poi che ’l crudel serpente hebbe mirato
     Non haver huom, che non sia morto intorno,
     Come un’ eccelsa torre in piè levato
     Cercò con gli occhi tutto quel contorno,
     E ’l può ben far la mostruosa belva,
     Che vede sotto à lei tutta la selva.

Ben grande può parer distesa, e in piede,
     Che se vien torta nel suo stato à porse,
     Non men grande del drago esser si crede,
     Che come un fiume in ciel divide l’Orse.
     Hor poi, che ’l mostro incomparabil vede,
     Ch’altri non v’è, che possa contraporse,
     Distese in terra in varij modi attorti
     Gli stanchi membri in mezzo à i corpi morti.

Già nel meridiano era il Sol giunto
     Da la nova città, che far si deve,
     E stando allhor nel più supremo punto
     In quel loco rendea l’ombra più breve,
     Quando al lor Re da gran pensier compunto
     Pareva l’aspettar noioso, e greve,
     E stranamente il cor teneangli oppresso
     Maraviglia, e timor d’un mal successo.

Non è per l’orme loro à seguir tardo
     Di pelle di leon, forte, et ornato,
     Tien ne la destra atto à lanciar un dardo,
     La spada al fianco ha dal sinistro lato,
     La manca un cerro tien grosso, e gagliardo,
     Ch’uno estremo ha d’acciar lucido armato,
     Ha il cor poi sì magnanimo, e preclaro,
     Che più d’ogni arme val, più d’ogni acciaro.

Come entra, e vede la selva funesta,
     E come il troppo sangue il fondo allaghe,
     E ’l drago star con elevata cresta
     Leccando altier le velenose piaghe,
     Forza è, fidi compagni, che di questa
     Ingiuria vostra io mi compiaccia, e paghe,
     Ó ch’ io vendicherò sì fatto torto
     (Disse.) ò qui presso à voi resterò morto.

Ecco, che vede un grave sasso in terra,
     Che gli pare atto à far l’hoste morire,
     Posa il dardo la destra, e ’l sasso afferra,
     per abondare in arme da ferire
     Gli tira quel con tal furor, ch’à terra
     Un grosso muro havria fatto venire,
     Ma l’aurea squama sua sostenne il peso,
     E restò da quel colpo il drago illeso.

Se ben non nocque al crudo serpe il sasso,
     Pure il fe resentire, e ’l mosse ad ira,
     Sbatte l’ali, e la coda, e affretta il passo,
     E d’assalire il suo nemico mira.
     Vedendo Cadmo l’impeto, e ’l fracasso
     Prende tosto di terra il dardo, e tira,
     Che le squame passò, la carne, e l’osso,
     E fu cagion, che non gli venne adosso.