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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/80

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Perche, come il crudel mostro s’accorse,
     Del dardo, che per torgli andò la vita,
     À quella parte il curvo collo torse,
     E riguardò fu ’l tergo la ferita,
     Poi con gran rabbia l’hasta affisa morse,
     Ne lasciò fin che non la vide uscita.
     E tanto fe, che al fin fuor trasse il cerro,
     Ma restò ben ne la ferita il ferro.

Cadmo in quel tempo, ch’era il drago volto
À trarsi il dardo col tenace morso,
     Impiagò con l’altra hasta (il tempo colto)
     Ne l’altra parte à l’animale il dorso,
     Ma come ei fu di quello impaccio sciolto,
     Contra al nemico suo rivolse il corso,
     Cadmo, ben fermo, in bell’atto si pone,
     E la punta de l’hasta al mostro oppone.

Il Drago del suo sangue il ferro opposto
     Vede tutto esser tinto, e quello incolpa
     Del suo gran male, et imboccandol tosto
     Si sfoga contra lui, che non n’ ha colpa,
     Ma ben dal duro acciar gli fu risposto,
     Che nel palato penetrò la polpa,
     Ma l’osso nò, che ’l ferir, ch’ei sentio
     À mezzo il corso il fe venir restio.

Non può ne l’osso penetrar la punta,
     Che ’l crudel mostro ha ritirato il piede,
     E per non far maggior la parte punta,
     Ritira il collo, e la persona, e cede,
     Cresce ogni hor Cadmo innanzi, e perche giunta
     Quell’empia belva à mal partito vede,
     Tien nel suo stato l’hasta, e à crescer mira,
     Quanto cede il serpente, e si ritira.

Mentre, che in quello stato ogn’un contrasta,
     E Cadmo pinge ben la punta ultrice,
     E ’l drago cede à l’ impeto de l’hasta,
     Acciò che non gli fori la cervice,
     Un’alta quercia ogni disegno guasta
     Al mostro, e ’l ritirarsi gli disdice,
     La dove urtando à caso il tergo offeso,
     Piegar fe il tronco il suo soverchio peso.

Il ferro al drago allhor fora la testa,
     E perche par, che l’arbor vi consenta,
     La coda di vendetta avida, e presta,
     La quercia à più poter batte, e tormenta,
     L’arbor di lui mal satisfatto resta,
     E geme, si rammarica, e lamenta,
     Gli par, che faccia, torto il serpe ingiusto
     A l’innocente suo sostegno, e fusto.

Mentre nel morto drago egli si specchia,
     E considera i membri smisurati,
     Una gran voce gl’ introna l’orecchia,
     Perchè più (dice) in quel serpente guati,
     Se tu ne l’età tua matura, e vecchia
     Non sai, che t’habbian destinato i Fati?
     La serpe hor miri tu, che più non serpe,
     E serper tu sarai mirato serpe.

Scorger non si potè da cui venisse
     La voce, pure uscir s’udì dal cielo,
     E di colore, e d’animo smarrisse
     Il tiro, et arriccioglisi ogni pelo,
     Mentre stava così, gli apparve, e disse
     Minerva, accesa d’amichevol zelo,
     I denti al drago cava, e spargi in terra,
     Se vuoi fondar la destinata terra,

Così detto la Dea disparve presto,
     E lasciò quel signor tutto smarrito,
     Che non sa s’egli dorme, ò s’egli è desto,
     Da tante novità viene assalito,
     Pur desioso di vedere il resto,
     Da poi, che si fù alquanto risentito,
     Per obedir la Dea si fe bifolco,
     Con l’aratro à la terra aprendo il solco.

Su’l campo arato quei denti comparte.
     E poi fa, che l’aratro gli ricopra,
     Indi si mette à rimirar da parte,
     Che frutto mieterà di sì stran’opra.
     Non molto stà, che molte punte sparte
     Di fino acciar vede apparir di sopra,
     E percosse dal Sol rendeano il lampo,
     Che rende il ferro di molt’haste in campo.