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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/88

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Vedendo al fin, ch’ogni suo priego è vano
     Si torna Giove al cielo, ove si veste,
     Del suo splendore, e poi di mano in mano
     Di nuvoli, di venti, e di tempeste,
     E di lampi, e di tuoni, e al fine in mano
     Toglie il terribil folgore celeste,
     Non però il più dannoso, anzi si sforza,
     Di scemargli l’ardor, l’ ira, e la forza.

Non quel, ch’arse il centimano Tifone
     Toglie, che troppo è quel tremendo, e fero,
     Ma fra quei di minor conditione
     Sceglie il manco nocivo, e ’l più leggiero,
     E così Giove contentò Giunone,
     Che colei non potè l’aspetto vero
     Soffrir di lui quando in tal forma apparse,
     E de l’amante il don l’accese, et arse.

L’infante, che nel corpo era imperfetto,
     De l’ infelice donna, che s’accese,
     Che del seme di Giove havea concetto,
     Dal ventre, ch’aprir fece il padre prese,
     E se creder vogliam quel, che vien detto,
     Con tanta industria à quel fanciul s’attese,
     Ch’unito un tempo a l’utero del padre,
     Finì quei mesi, onde mancò la madre.

Quando fu poi perfetta, e ben matura
     La degna prole, ch’ in due ventri crebbe,
     Giove da se spiccolla, e ne diè cura
     Ad Ino, una sua Zia, che cura n’hebbe,
     La qual, se ben di Giuno havea paura,
     Non mancò al nipotin di quel, che debbe,
     À le Ninfe Niseide il diè di notte,
     Ch’ascoso il nutrir poi ne le lor grotte.

Questo fu il padre Bacco, e l’ inventore
     Del meglior culto à la feconda vite,
     Che la dolce uva, e quel divin liquore
     Porge al sostegno de le nostre vite.
     Hor mentre egli è d’ogni periglio fuore,
     Giunon, che star non suol mai senza lite,
     Vedendo in vista assai turbato Giove,
     Per più turbarlo un’altra lite move.

Stassi Giove turbato per la morte,
     Ch’ogni sua gioia, ogni suo ben gli ha tolto,
     E ’l punge, e rode quel pensier di sorte,
     Che qual sia dentro il cor fuor mostra il volto,
     Di questo s’affligea la sua consorte
     Che scorgea il suo desio lascivo, e stolto,
     E questo tal travaglio, e duol l’apporta,
     C’ ha gelosia di lei, se bene è morta.

Ne può tenersi d’ ira, e rabbia accesa,
     Vinta dal duol, che non le venga detto,
     Che cosa tanto v’ ha la mente offesa,
     Che vi fa sì turbato ne l’aspetto?
     Pensate forse à nova rete tesa,
     Per farmi ogni hor star vedova nel letto,
     Pensier nel ver da trarne honore, e frutto
     Degno di quel gran Dio, che regge il tutto.

Infinite ragion creder mi fanno,
     Ch’à l’huom maggior contento amore arrechi,
     Poi che ’l poter sì spesso usa, e l’inganno
     Per venire à quegli atti infami, e biechi,
     Correte al vostro biasmo, al vostro danno
     Per soverchia lascivia insani, e ciechi,
     Che ’l fin d’amor per voi soave è tanto,
     Che vi fa la vergogna por da canto.

Ma ben nacquer le donne per sentire
     Tutti quanti i martir, tutte le doglie,
     L’esser gravida, e ’l duol del partorire,
     E ’l nutrir tocca à la scontenta moglie,
     Questo è il nostro piacer, questo è ’l gioire,
     Questo frutto d’amor per noi si coglie.
     Ciò, che di male ha il matrimonio, è ’l nostro,
     Ma il piacere, e ’l contento è tutto il vostro.

Maraviglia non è dunque, s’amore
     Del foco suo così spesso v’accende,
     E non curate punto de l’ honore,
     Tal gioia, e tal piacer da voi si prende.
     Non ci pensate più, sfogate il core,
     Gite à trovar l’amica, che v’attende,
     E senza haver d’honor, ne d’altro cura,
     Date luogo al diletto, e à la natura.