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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/91

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D’una Ninfa arse già lo Dio Cefiso,
     Detta Liriope, che di Teti nacque,
     E potè tanto il suo leggiadro viso,
     Ch’ei la sforzò ne le sue limpid’acque.
     N’hebbe ella un figlio, nomato Narciso,
     E dato che fuor l’hebbe, andar le piacque
     À quel, che l’occhio esteriore ha scuro,
     Ma con l’interior vede il futuro.

Dove, poi che fu giunta, dimandollo,
     Che per virtù de la sua profetia
     Al figlio predicesse, c’havea in collo,
     La sorte de la sua stella natia.
     No’l potendo veder, con man toccollo,
     Poi con questo parlar la mandò via,
     Ch’un viver lungo à lui saria concesso,
     Pur chè non conoscesse mai se stesso.

Parve per lungo tempo van quel detto,
     Ne la madre ne fu mesta, ne lieta,
     Se non dapoi, che ne seguì l’effetto,
     Che fe vera la voce del profeta.
     Ahi strano amore, ahi troppo caldo affetto,
     Da far i sassi intenerir di pieta,
     Che togliesti à quel misero la vita,
     Ne l’età sua più verde, e più fiorita.

Dal dì, che l’empio suo destino, e fato,
     Diè per natale al misero garzone,
     Sopra tre lustri era tre volte andato
     Apollo da la Vergine al Leone,
     Quand’egli un volto havea sì bello, e grato,
     Ch’ innamorava tutte le persone,
     Di qual si voglia grado, e qualitade,
     D’ogni affar, d’ogni sesso, e d’ogni etade.

Le fattezze del viso eran sì belle,
     Ch’ogni volto più bel fean parer nullo:
     Erano in modo adulte, e tenerelle,
     Ch’io non so s’era giovane, ò fanciullo,
     E maritate, e vedove, e donzelle,
     Ardean de l’amoroso suo trastullo,
     Non v’era cor sì mondo, ne sì casto,
     Che non havesse allhor macchiato, e guasto.

Ma fu cotanto altier, che non tenea
     De le più scelte vergini pur cura.
     Se l’amor virginal non gli premea,
     Dove più l’huomo invita la natura,
     Ben può pensarsi quel, che far dovea
     Di qualche donna vedova, e matura.
     Si riputò sì bel, nobile, e degno,
     C’havea ciascun, fuor che se stesso, à sdegno.

Vide un dì quelle luci alme, e gioconde,
     Vide le bianche, e le vermiglie gote
     Una Ninfa, ch’al dir d’altrui risponde,
     Ma cominciare à dire ella non puote,
     Replica il tutto, ma il parlar confonde,
     E lascia solo udir l’ultime note:
     Che mentre l’uno, e l’altro à dire attende,
     Il parlar, che precede, non s’intende.

Costei, ch’Ecco chiamossi, e chiama anchora,
     Che parla sol da l’altrui dir commossa,
     Voce sola non fu nuda, com’hora,
     Ma forma, e quantità di carne, e d’ossa,
     Ben che com’hor quell’infelice allhora,
     D’esser prima al parlar non havea possa.
     L’ira il principio al dir tolto l’havea
     De la sempre gelosa, e mesta Dea.

Un parlare hebbe già tanto soave
     Questa, à cui manca hor la loquela intera,
     Che mai non hebbe il mondo, e manco hoggi have,
     Donna di tanto affabile maniera.
     Ogni aspra cura faticosa, e grave,
     Fatta havria dolce, facile, e leggiera.
     E l’usò sempre mai con buona mente
     Schivando risse, e scandali sovente.

Questa mirabil Ninfa ornata, e bella,
     Fra Ninfe, fra Silvani, e fra Pastori,
     Con l’eloquente sua dolce favella
     Acchetava ogni dì mille romori.
     La gelosa Giunone al fin fu quella,
     Che tolse al suo parlar tutti gli honori,
     Perche le sue parole ornate, e colte,
     L’havean nociuto mille, e mille volte.