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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/90

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Del sesso io voglio farti per tua doglia,
     Che tanto ingordo quel diletto agogna,
     Acciò che, quando n’haverai più voglia,
     T’ impedisca il baston de la vergogna.
     Ma ’l vezzo rio seguì la nova spoglia,
     E de l’honor schernendo ogni rampogna,
     Poco passò, che per esperienza
     Havria potuto dar quella sentenza.

Si sà ben proveder secretamente
     Per satisfar la sua voglia impudica
     Tiresia, ma non tanto, che la gente
     Nol veda, non ne mormori, e nol dica.
     Ahi come donna si scuopre sovente
     De l’honor, di se stessa, poco amica,
     Ch’à dishonesto amor ceda, e compiaccia,
     Pensando, che si celi, e che si taccia.

Ben fortunata si può dir colei,
     Che non dà orecchie à dishonesto invito,
     E che può far, che la ragione in lei
     Vinca il pensier lascivo, e l’appetito.
      Ó ben felice cinque volte, e sei,
     Chi si sa contentar del suo marito,
     E non la lega altro impudico nodo,
     Che son gli huomini al fin tutti ad un modo.

Vide, dopo sette anni, che fu donna,
     La serpe sotto à l’amorosa soma,
     E disse, s’à turbargli l’huom s’indonna,
     Io vò provar, se la donna s’ inhuoma,
     Gli batte, e un saio allhor sì fe la gonna,
     Crebbe la barba, e s’accortò la chioma,
     Spianossi il petto, e quel, ch’era nascosto
     Uscendo, il fe per huom conoscer tosto.

E s’è ver quel, che molti hanno affermato,
     Quand’ei l’ultima volta gli batteo,
     Volle il colpo ritrar, c’havea menato,
     Ma calato era troppo, e non poteo:
     Che trovò sempre in feminile stato,
     Come più volte esperienza feo,
     Venere assai più dolce, e più soave,
     E però il tornar huom le parea grave.

Vò (disse) ad ogni modo castigarti
     Ver lui (ch’era anchor donna) la Natura.
     E intendo il tuo maggior piacer levarti,
     Poi che non hai de la vergogna cura.
     E quanto erra colui, vo anchor mostrarti,
     Che d’impedir l’altrui gioia procura,
     E così tolse il ben più dolce à lui,
     Per la dolcezza, c’havea tolto altrui.

À questo eletto giudice s’espose,
     La di ridicol merito tentione,
     Il qual senza pensarvi su, rispose,
     E la sententia diè contro Giunone.
     Le man, sdegnata, addosso ella gli pose,
     E fuor d’ogni dover, d’ogni ragione,
     Come s’havesse à lei fatto uno scorno,
     Gli occhi innocenti suoi privò del giorno.

Così perpetua notte il miser hebbe,
     Per pagamento de la sua sentenza,
     E’l Re del cielo, à cui molto n’increbbe,
     Sofferse, che ’l facesse in sua presenza:
     Però che giusto à un Dio già non sarebbe
     A l’oprar d’altro Dio far violenza,
     Pur, per ricompensar quel rio destino,
     De le cose future il fe indovino.

Così diè Giove ricompensa in parte
     Al miser huom, ch’havea perduto il lume,
     E, per dirlo la Fama in ogni parte
     Tosto spiegò le sue veloci piume,
     Come in Beotia un cieco v’è, che l’arte
     D’indovinar il ver, saper presume.
     E in poco tempo da tutte le bande
     Vi concorse à trovarlo un popol grande.

Quel vuol saper il fin d’una sua lite,
     E quell’altro il successo d’una guerra,
     Chi di fanciulli le future vite,
     Chi s’uno absente è vivo, over sotterra.
     Innamorate, e gelose infinite,
     Corron da tutti i lati de la terra,
     Ei (secondo, che lor la sorte viene)
     Predice ad altri il male, ad altri il bene.