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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/93

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Narciso al fin si fugge, e non la vuole,
     E da giovane, e sciocco si governa,
     Ahi come ella fra se si lagna, e dole,
     Vedendosi sì bella, e ch’ei la scherna,
     E s’havesse l’antiche sue parole,
     E potesse dar fuor la doglia interna
     Pianger fariano i suoi muti lamenti
     La terra, il cielo, e tutti gli elementi.

Quanto sia la sua vita aspra, e noiosa,
     Mostra lo stratio de le chiome bionde,
     Si batte, e graffia, e comparir non osa
     Fra l’altre, e ne le selve si nasconde,
     Si vive in qualche grotta cavernosa,
     Dove tal volta à l’altrui dir risponde,
     E cresce ogn’hor più l’amoroso foco,
     Che l’arde, e la consuma à poco à poco.

Quel foco ch’entro la distrugge, e coce,
     L’humore, e ’l sangue in grosso aer risolve.
     E tanto consumando al corpo noce,
     Che la carne si fa cenere, e polve.
     Al fin sol le restar l’ossa, e la voce,
     Ma tosto l’ossa in duri sassi volve.
     Stassi hor ne gli antri, d’ossa, e carne privo
     Quel suon, che solo in lei rimaso è vivo.

Oltr’à costei disprezza, hor quelle, hor queste
     Narciso, e l’Amadriadi, e le Napee,
     Ne mover lo potria forma celeste,
     Minerva, ò Citherea, con l’altre Dee.
     Fra tante, e tante disprezzate teste
     Chiese ragione à le bilance Astree
     Una, c’havendo al ciel le luci fisse,
     Con le braccia elevate così disse.

Astrea, ch’in man la retta libra porti
     De la giustitia del celeste regno,
     Facci ragion di mille, e mille torti
     Contra costui, c’ ha tutto il mondo à sdegno.
     Fa, che talmente Amor seco si porti,
     Che nel mondo n’appaia illustre segno.
     Fa, c’habbia quel contento à i desir sui,
     C’ha dato ei sempre, et è per dare altrui.

Replicò forte cinque volte, e sei
     La Ninfa i giusti suoi prieghi, e lamenti.
     Ó come bene essaudir gli Dei
     Pria, che i suoi raggi Apollo havesse spenti,
     La giusta oration, che fe colei,
     Il suo cordoglio, i suoi sospiri ardenti,
     Ch’uno amor prese lui più folle, e strano,
     Che mai nascesse in intelletto humano.

Dentro un’ombrosa selva, à piè d’un monte,
     Dove verdeggia à lo scoperto un prato,
     Sorge una chiara, e cristallina fonte,
     Che confina à la linea di quel lato,
     Che quando equidistante à l’Orizonte
     De l’Orto, e de l’Occaso è il Sole alzato,
     L’ombrosa spalla del monte difende,
     Che ’l più cocente Sol mai non l’offende.

Quel chiaro fonte è sì purgato, e mondo,
     E l’acqua in modo è lucida, e traspare,
     Che ciò, ch’egli ha nel suo più cupo fondo
     Scoperto à gli occhi altrui di sopra appare,
     Hor mentre il Sol dà il maggior caldo al mondo
     Nel punto, ch’è principio al declinare,
     Amor menò costui per castigallo
     À questo puro, e liquido cristallo.

Arso dal Sole, e da la caccia stanco
     Brama il riposo, e più trarsi la sete,
     Allenta l’arco, e toglie i dardi al fianco,
     Per darsi, dopo il bere, à la quiete;
     Ma più trist’acqua egli non bevve unquanco
     Di questa, e fu per lui l’onda di Lete,
     Di questa, che fin pose à gli anni sui,
     E fu quel giorno il mal fonte per lui.

Mentre à gustare il suo dolce liquore
     L’avide, e secche labra il fonte tira,
     Una sete maggior gli cresce al core
     Di se, che l’ombra sua ne l’onda mira.
     Come guardar ne l’onda il vede Amore,
     La saetta dorata incocca, e tira,
     El cor d’un van desio tosto gl’ingombra,
     E fa, che s’innamora di quell’ombra.