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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/96

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Già l’alma il gran dolor preme sì forte,
     Dar non potendo il suo contento al core,
     Che per me sento avicinar la morte,
     Ne la mia verde età, su ’l più bel fiore.
     E più m’incresce, che con ugual sorte
     Morendom’io, quel, ch’è nel fonte, more.
     S’uccide me, non lascia in vita lui
     Morte, e se ne toglie un, ne toglie dui.

À me per me non duol questa partita,
     Mancar dovendo il mio dolor con lei,
     Mi grava ben, che non rimane in vita
     Colui, che piace tanto à gli occhi miei.
     Ma il dolce fonte mi richiama, e invita
     À mirar quel, ch’anchor toccar vorrei.
     Così dicendo ritornar gli piacque
     À rimirar le sue mortifere acque.

Lagrima, e lagrimar l’amato viso
     Vede, e vuol pur toccarlo, e turba l’onda,
     E mira il simulato suo Narciso,
     Che par, che fuggir voglia, e si nasconda.
     Ovunque l’onda il manda, ei l’occhio fiso
     Tien sempre, e’l pianto ogn’hor cresce, et abonda.
     Se non vuoi, ch’io ti tocchi, ne che t’oda
     (Disse) lascia, ch’almen l’occhio ti goda.

D’ira acceso in se stesso, e di dispetto,
     Poi, ch’egli al suo gran mal sì caldo intende,
     Co i pugni chiusi l’ innocente petto
     Percote, pur la veste gliel contende.
     Per dare al batter suo maggior effetto,
     Leva la spoglia, e quello ignudo offende,
     Si batte, e duolsi, e dassi in preda al lutto,
     E par de l’intelletto uscito al tutto.

L’eburneo petto suo così percosso,
     Si sparse d’una nobile tintura
     Prese un misto color di bianco, e rosso,
     Qual mela suol haver non ben matura:
     Ó come uva, che l’acino ha già grosso,
     Che già rosseggia, e tende à farsi oscura,
     Si vestì d’un color, d’una maniera,
     Che ’l fe più bello assai, che pria non era.

Hor come anchor si specchia, e che s’accorge
     Di quelle carni tenere di latte,
     E ’l bel cinabrio sì ben misto scorge
     In quelle parti ignude, sì ben fatte,
     L’amoroso desio più caldo sorge,
     Di palpar quelle membra anchora intatte,
     E se ben egli sa, che nulla abbraccia,
     Gli è forza in quello error tuffar le braccia.

L’onda si move, et ei si duol, che fugge,
     Lascia fermarla, e torna à rimirarsi,
     E sì cresce il desio, tanto l’adhugge,
     Che dove ardea, comincia à liquefarsi.
     Così nel forno il metallo sì strugge,
     Che comincia al principio ad infocarsi,
     Et infocato ogn’hor si fa più molle,
     Tal, che come acqua al fin liquido bolle.

Già manca il bel color vermiglio, e bianco,
     Mancan le forze sue, manca il vigore,
     Il suo bel viso, e ’l splendor vien manco,
     Che già prese Ecco, hor’ à lui strugge il core.
     Ecco anchor, che sdegnata, non di manco
     Ha sempre accompagnato il suo dolore,
     Replicò ciò, che mai Narciso disse,
     E fe, che’l fin del suo parlar s’udisse.

Al suon, che’l batter de le man rendea,
     Quando il petto, e la man battea sì forte,
     Ella col suon medesmo rispondea,
     Diss’egli all’ombra, ecco ho per te la morte,
     Ecco ho per te la morte (ella dicea)
     E rimembrava la sua cruda sorte.
     Dice egli al fin, me ’n vò, rimanti in pace,
     Ella dice il medesmo, e poi si tace.

Lo smorto volto al fin su l’herba verde
     Posa, e ’n quel van pensier si stà pur fiso,
     E tanto à poco à poco il vigor perde,
     Che la morte s’alberga nel suo viso,
     Le luci, che satiar non si poter de
     Gli usati sguardi in quel finto Narciso,
     À specchiarsi se’n gir, di carne ignude,
     Ne la nera infernal Stigia palude.