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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/95

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Si leva al fine, e manda gli occhi in giro,
     E mostra il fonte, che’l consuma, e coce
     À i boschi intorno; e con più d’un sospiro
     In questa forma articola la voce.
     Voi selve, che l’ardente mio desiro
     Vedete in parte, e ’l mal, che sì mi noce,
     Ascoltate per Dio quel, che dir voglio,
     Et udirete in tutto il mio cordoglio.

Selve; che’I vostro honor, ch’al cielo è asceso,
     E ’l piede, che di voi tende à l’inferno,
     Havete tanti secoli difeso
     Dal gran rigor de l’indiscreto verno,
     E più d’un cor d’amor ferito, e preso,
     (Che sfogò qui tal volta il duolo interno)
     Veduto havete, ditemi per Dio,
     Se mai vedeste amor simile al mio?

Strana legge d’Amor, mi piace, e ’l vedo,
     Ne trovo quel, che vedo, e che mi piace:
     E allhor, ch’ io ’l prendo, e stringerlo mi credo,
     Più libero il ritrovo, e più fugace.
     Io conosco il mio errore, e me n’avedo,
     E so, ch’io credo à quel, che m’è mendace,
     E sì accecato Amor m’have, e percosso,
     Ch’ io cerco quel, che ritrovar non posso.

E perche maggior doglia io vi racconte,
     Chi mi toglie la via? chi nol comporta?
     È forse largo mare ? ò alpestre monte ?
     Grossa parete? ò ben fermata porta?
     Oime, che m’impedisce un picciol fonte,
     Fa un picciol rio la mia speranza morta.
     Ei vuol, ch’io l’ami, à voti miei risponde,
     Ma il negan le gelose, et invide onde.

Che s’io per dargli un bacio à lui m’inchino,
     Per dar quel refrigerio à la mia doglia,
     Ei col suo dolce viso, e resupino
     Ver me dimostra la medesma voglia.
     Qual tu ti sia, mortal viso, ò divino
     Vien fuor, deh fa ch’ i’ nel mio sen t’accoglia,
     Lascia il nemico fonte à noi non grato,
     E trastulliamci insieme in questo prato.

Ahi come male il mio pregar si prezza,
     Perche non esci homai? che fai? che tardi?
     Oime che l’età mia, la mia bellezza
     Non si doveria fuggir, se ben ci guardi.
     Ahi, che l’aspetto mio, la mia vaghezza,
     Le mie vermiglie guance, e i dolci sguardi
     Son tali, ch’ogni altro occhio se n’accende,
     E solo il tuo mi schiva, e vilipende.

In te non so pur che di speme io scorgo,
     Che mostri un viso amabile, e discreto,
     Le braccia porgi à me, s’à te le porgo,
     Se lieto à te mi mostro, à me tu lieto,
     S’io piango, che tu lagrimi m’accorgo,
     E mostri ragionar, s’io non sto cheto,
     Ma il dolce suon de le tue mute note
     Le nostre orecchie penetrar non puote.

Ahi, che pur’ hora ti conosco, e intendo,
     Tu sei l’imagin mia, se ben riguardo,
     E ’l mio splendor, che di quà su ti rendo,
     Da sì bel lume al tuo soave sguardo.
     Io sono, io son colui, ch’il foco accendo,
     E del medesmo foco io son quel, ch’ardo.
     Quel lume l’occhio tuo da me si fugge,
     Ch’in me riflette, e mi consuma, e strugge.

Conosco, ch’esso è me, e ch’io son’ esso,
     Tanto, ch’ io son l’amante, io son l’amato.
     Che debbo far? debb’io pregar me stesso?
     Ó pur debbo aspettar d’esser pregato?
     Chiederò forse quel, c’ho sempre appresso?
     Quel, che nel corpo mio stassi informato?
     Oime, che la ricchezza à me fa inopia,
     E pover son, per troppo haverne copia.

Potessi almen da questo corpo mio
     Prendendo un’ altro corpo separarmi,
     Lasciando in lui però la forma, ch’io
     Amo tanto in colui, che veder parmi:
     Che se fosse in due corpi un sol desio,
     Si potria trovar via da contentarmi,
     Ma già non posso (essendo un sol soggetto)
     Questo petto goder con questo petto.