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188 | alfredo panzini |
Tale mistero Cibele confidò al giovinetto Attis, ma a una condizione: che lui fosse per lei solo, e non di altra donna.
Ora Attis si invaghì, a sua volta, di una ninfa che era assai vaga di sapere i misteri di Cibele. «Se non me li riveli», disse, «o Attis, tu non avrai da me cosa che ti piaccia».
E Attis parlò. Ma dopo che ebbe commesso il peccato, gli si aprirono gli occhi e vide il suo tradimento. Un furore lo prese come se un Nume malvagio lo avesse inebriato, e di sua mano fece sopra le sue carni vendetta. E poi, squassando per la selva i tintinnanti cembali, evocava i Coribanti, e questi tutti impazzirono e fecero il simigliarne, e più non erano uomini.
I giovani poeti della pleiade alessandrina avevano questo costume di prendere queste fole e leggende dei numi, e ornarle e costellarle di imagini magniloquenti.
E questa si potrebbe chiamare una falsa classicità.
Ma in questa narrazione di Catullo si sentiva qualche cosa che non era più arte soltanto: vita e morte si elevarono in contrasto come onde furibonde; follia e saviezza formavano una paurosa statua. La passione di Attis era