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litamente sdraiato. Aveva un grosso diamante al dito e la cannuccia della pipa in bocca. Sputava anche lui con iperbole, e se occorreva qualche cosa, chiamava: «Giggia! Carmè! Concettiella!» ma lui non si moveva.

Le tre donne cantavano in cucina presso i fornelli di maiolica. Carmè era silenziosa e di pingui carni bianche: era la giovane moglie e fungeva da cuoca. Gigia era una aitante fanciulla con occhi chiari, idioti e capelli tizianeschi, piedi scalzi: lavava i piatti. Era una profuga. Concettiella nulla faceva, cantava sempre e insegnava a Gigia a non far nulla.

— Voi che guardate? — aveva detto il giorno innanzi Pasquà a Beatus.

Egli guardava Carmè con quanta grazia, e in un attimo, colei allestisse nella padella le uova con la mozzarella. E un’altra volta in quel dì, Pasquà pur disse: — Voi che guardate? — Egli guardava Concettiella che dicendo: «Cocco mio, vien qua», aveva tirato il collo a un pollastro e lavorava, alfine; cioè spennava caldo caldo il pollo sul limitare e spargeva penne e immondizie per la via.

Beatus, nel primo caso, spiegò a Pasquà