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Il giorno seguente la mia governante Desdemona mi avverte che c’è una signorina che chiede di me.

— Fate entrare nel salotto.

Entro anch’io. Ma dove è? Ah, eccola là.

Era la dattilografa.

Stava in posa, con una manina guantata sopra il mio pianoforte Bechstein. Una penna del suo cappellino andava in giù, l’altra in su come l’elica di un aeroplano. Del volto si vedeva soltanto un naso a falce, e un occhio solo, perchè l’altro era nascosto dal cappello. Ma quell’occhio era più grande del vero. Senza il faro di quell’occhio non la avrei distinta, perchè il mio salotto è grande e lei era piccola. La sua magrezza era così impressionante che quasi riusciva seducente.

Mi accosto: essa mandava un profumo violento, ma dozzinale. Sorrido, perchè certo costei ignora di trovarsi di fronte al gerente della ditta X*** e compagni.

Dice il suo nome. Essa, collocandola in serie, sarebbe la signorina Zeta.

Ma io la chiamerò la signorina Ossobuco.