Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/139

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la morte di un re 61


Come la mia piccola anima si mutasse, io non so. Ma ricordo che dopo essermi aggirato due o tre volte per la stanzaccia, sentii nascere in me per il prigioniero una grande pietà e una viva ammirazione; ma sopra tutto un indistinto desiderio di farmelo amico, di allearmi a quella sua indomita fierezza, a quella sua forte malvagità.

— Ti faccio grazia della vita per ora, e ti porterò da mangiare, — gli dissi.

E con tale proponimento mi recai da un certo tale, esperto di cacce con l’archibugio e con le panie, e lo richiesi quale fosse il nutrimento dei falchi.

— Cuore e fegato, — mi fu risposto.

Cuore e fegato ebbe, e ben lo seppero i polli della cucina che in quel giorno vennero trovati privi delle interiora, con gran dispetto della fantesca e sorpresa del gatto — un onestissimo e moderatissimo gatto — che mi guardava con le sue fosforescenti pupille come a dire: — ecco un altro che usurpa il mio mestiere di rubare!

Corsi in soffitta e presentando quella superba imbandigione, mi lusingavo di ottenere almeno un cenno di ringraziamento. Non fu così.

Non si degnò nemmeno di chinarsi per toccare quei cibi. — Quando avrai fame mangerai e quando avrai sete berrai, — dissi allora.

Era azzurro il cielo fuori della finestra; un cielo fondo, pieno di libertà e di silenzi. Ma il falco aveva abbassato sulle terribili pupille le due palpebre gialle e grinzose e rimaneva ritto, rigido, regalmente rigido. Lo contemplai, non un atto per istrappare la catena!