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Il topo di biblioteca 29


C’era come un demonio spaventosamente logico che poneva davanti alla sua ragione tutti i casi delle possibilità, in quanto che “di una morte o di un’altra, non ti pare che si debba morire, professor Fulai?„ diceva quel demone. Davanti a lui la doppia fila dei gran tronchi dei plàtani si perdeva nello sfondo grigio della sera cadente senza luce di vespero. I lumi della città si scorgevano dall’altra parte già lontani, come un’aureola di biancore, un riverbero delle luci elettriche. Ma egli era ben lontano dalla città! “Io sono corso sino qui come un cane randagio„ pensò. Un enorme ribrezzo lo colse a questo paragone che inconsapevolmente avea concepito. Volle tornare indietro; ma aveva paura delle luci elettriche della città come del buio fra i plàtani. Un lumino brillava davanti. Forse era il casotto dei dazieri. Sarebbe arrivato sino là. Avrebbe parlato coi dazieri. Ma il lume si faceva sempre più lontano: era un fanale che si moveva lentamente. Allora si sovvenne che quel viale conduceva al cimitero. Fanale, ferale, feralis! Radice: bar, fero, io porto: la bara! Un’orrenda mistura filologica. Si ricordò di quelli che non possono più dormire nel proprio letto, e vanno volontariamente a dormire sotto quei cipressi. Voltò, e si mise a correre disperatamente verso la città.