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ii - il mezzogiorno | 133 |
quasi al meriggio stanca villanella
che tra l’erbe innocenti adagia il fianco
queta e sicura; e d’improvviso vede
un serpe; e balza in piedi inorridita;
e le rigide man stende, e ritragge
il gomito, e l’anelito sospende;
e immota e muta e con le labbra aperte
obliquamente il guarda! Oh come spesso
incauto amante a la sua lunga pena
cercò sollievo: et invocar credendo
Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi
di fredda oblivion l’alma gli asperse:
e d’invincibil noia e di torpente
indifferenza gli ricinse il core.
Ma se a la dama dispensar non piace
le vivande, o non giova, allor tu stesso
il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui
piú brillerá cosí l’enorme gemma,
do’.c’esca agli usurai, che quella osáro
a le promesse di signor preporre
villanamente; ed osservati fièno
i manichetti, la piú nobil opra
che tessesse giammai anglica Aracne.
Invidieran tua dilicata mano
i convitati; inarcheran le ciglia
sul diffidi lavoro, e d’oggi in poi
ti fia ceduto il trinciator coltello
che al cadetto guerrier serban le mense.
Teco son io, signor; giá intendo e veggo,
felice osservatore, i detti e i moti
de’ semidei che coronando stanno,
e con vario costume ornan la mensa.
Or chi è quell’eroe che tanta parte
colá ingombra di loco, e mangia e fiuta
e guata, e, de le altrui cure ridendo,
si superba di ventre agita mole?