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340 le odi


     ed io, fra l'acque in rustic’urna immerso,
e a le naiadi belle umil converso,
oro non giá chiedea
che a me portasser dall’alpestre vena,
60ma te, cara salute, al fin serena.
     Ed ecco, i passi a quello dio conforme
cui finse antico grido
verso il materno lido
dal Xanto ritornar con splendid’orme,
65ei venne; e al capo mio
vicin si assise; e da gli ardenti lumi
e da i novi spargendo atti e costumi
sovra i miei mali oblio,
a me di me tali degnò dir cose,
70che tenerle fia meglio al vulgo ascose.
     Io del rapido tempo in vece a scorno
custodirò il momento,
ch’ei con nobil portento
ruppe lo stuol che a lui venia d’intorno;
75e solo accorse; e ratto,
me, nel sublime impaziente cocchio
per la negata, ohimè! forza al ginocchio
male ad ascender atto,
con la man sopportò, lucidi dardi
80di sacre gemme sparpagliante a i guardi.
     Come la Grecia un di gl’incliti figli
di Tindaro credette
agili su le vette
de le navi apparir pronti a i perigli;
85e di felice raggio
sfavillando il bel crin biondo e le vesti,
curvare i rosei dorsi; e le celesti
porger braccia, coraggio
dando fra balte minacciatiti spume
90al trepido nocchier, caro al lor nume: