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sonetti | 283 |
LXXX
ALLA VERGINE
1.
Ohimè in quel giorno, ohimè in quell’ora amara,
ch’io non so ancor, dell’ultima partita,
a te mi raccomando, o Vergin cara,
che sei la madre dell’eterna vita.
Deh quella grazia, o Vergine, che rara
non è giammai dalle tue mani uscita,
quella nel fèro giorno a me prepara,
Vergine, tu che n’hai possa infinita!
E s’a lavare il mio fallir, cotanto
di lagrime non dièr fonte o rigagno,
ma queste luci mie fúr chiuse al pianto;
or che dell’onda lor tutto mi bagno,
lavalo, i’ prego, col tuo latte santo,
Vergine tu, che sei il nostro bagno.
LXXXI
2.
Comincio dal tuo nome a far parole,
Donna, che sei mar vero onde a noi sorse
quel che giá per salvarne a morte corse,
figlio d’eterna mente, eterno sole:
mar, che le genti abbandonate e sole
sopra le limpid’onde in porto scorse;
e le nimiche squadre irato assorse,
onde Stige pur anco angesi e duole;
mar, che le pure aduna amabil’acque
del divino favor, le quali a Dio
tutte nel grembo tuo riponer piacque;
e mare, onde il bel forte a noi salio
d’eterna vita, innanzi a cui si giacque
avvelenato il serpe audace e rio.