Pagina:Parini, Giuseppe – Prose, Vol. I, 1913 – BEIC 1891614.djvu/206

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frequentemente d’occupazione; imperciocché ciò che si può chiamar vita della nostr’anima non è altro che l’essere in continua azione e in continuo movimento. Tosto che l’anima nostra si trova nella inazione, sia perché gli oggetti esteriori non operino o non varino bastevolmente operando sopra di essa, sia perché essa non abbia bastevole energia per operare dentro di sé, pruova essa un bisogno, cioè un sentimento di pena, il qual sentimento noi chiamiamo «noia». Pochissimi sono quegli uomini, i quali, o per felicitá di temperamento, o per eccellenza d’educazione data a se medesimi, non sieno frequentemente soggetti a questo stato penoso della noia. La maggior parte sono costretti di correr dietro anche a fatiche grandissime, ed a mettersi in gravissimi pericoli della vita, della roba o dell’onore per involarsi dall’atra cura che li persegue, cavalcando in groppa con essi. Le fatiche del corpo, gli affetti del cuore, le meditazioni della mente sono gli unici mezzi con cui può l’uomo sottrarsi alle persecuzioni di costei. Ma gli affetti del cuore sono il mezzo piú facile e il piú comune, perché in tal caso noi non facciamo altro che lasciarci andare in balia delle vivaci impressioni che in noi fanno gli oggetti esteriori, senza che noi siamo obbligati ad una lunga e determinata contenzione dello spirito e della volontá; la quale contenzione, a lungo andare, è cagione in noi d’un’altra pena. Ma nulla è cosí atto a tenere in movimento il nostro animo quanto il timore de’ nostri propri mali. Ed ecco perché tante volte ci mettiamo spontaneamente a pericolo d’incontrarli, mancando anche, per questa via, alle leggi della prudenza, la quale c’insegna di non esporci per un bene presente ad un male futuro, quando fra questo bene e questo male non ci sia una debita proporzione. Nulla, dopo di ciò, è piú atto ad interessare ed a commovere l’anima nostra che lo spettacolo de’ mali o de’ pericoli de’ nostri simili. Ed ecco perché la moltitudine accorre in folla al supplicio de’ condannati, alla vista d’una zuffa, d’un duello, d’un incendio, d’una tempesta, d’un ballerino, d’un saltatore, d’un giocoliere, d’un giocator temerario e simili. Ecco perché l’anfiteatro di Roma ingoiava per tante gole un tanto infinito numero di popolo, che non era diretto e corretto