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la poesia lirica in roma 109

dico io». «Come mai?» «È opposita a quindicimila e dugento sesterzi. Avete capito, una volta?» Insisto su questo scherzo di una parola, che ha un senso generale per tutti e uno speciale per i legulei, perchè è traccia preziosa della superiorità che gli riconoscevano gli amici. Bibaculo, dopo molti anni, lo imitò1, e come in questo è vero, così nel resto è verisimile, e come di lui così degli altri. Catullo è un caposcuola sì in questi scherzi, nugae e ineptiae, e sì nei poemetti elaborati con l’arte degli Alessandrini e gremiti dei loro spondaici, e sì negli epitalamii, condotti o in gliconei o in esametri. Ma sopra tutto è grande e nuovo nel gettare in forme greche, perfettamente imitate, pensieri e sentimenti suoi, la vita sua con le dolcezze e tristezze, col serio e ridicolo che vi trova. E ciò con una naturalezza e disinvoltura che innamora. Non vi ha poeta che sia meno grammaticus o «professore» di lui; egli ama, beve, ride e piange, senza specchiarsi o ascoltarsi mai. Vive come tutti gli altri: solamente, ogni piccolo avvenimento lo muove; ogni leggiero alito fa vibrare le corde tese della sua lira. Capita, per esempio, al tribunale, dove un alto personaggio, stato console l’anno innanzi in un grande frangente della repubblica, chiarissimo oratore, uomo dotto e geniale, deve parlare in una causa di civitas. L’uomo che è accusato d’aver usurpata la cittadinanza, è greco e poeta. Il praetor giudicante è anch’esso un uomo non alieno dalle lettere. Catullo si trova in una folla hominum litteratissimorum2. M. Tullio

  1. Vedi Bibaculus II.
  2. Pag. 32 [XLIX] e note. Cic. pro Archia, 2, 3 e 4.