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memore, infedele, spergiuro, cattivo!»1. Passa ancora un po’ di tempo. Catullo cerca sollievo nello studio: ha con sè una capsa de’ suoi preziosi volumi, il prediletto tra gli Alessandrini Callimacho, e traduce la Chioma di Berenice. Egli la manda a Hortensio Ortalo, con una piccola sua elegia, nella quale si sfoga, rinarrando a sè stesso più che all’amico la sua perdita e il suo dolore2. «Catullo» sembra dire «in tanto affanno, non dimentica come è dimenticato». E conclude con una comparazione gentilissima, che ci pone avanti gli occhi un idillio d’amore. La mente dell’addolorato torna a poco a poco ai pensieri consueti. In tanto riceve una lettera, scritta colle lagrime, di quel L. Manlio Torquato, di cui aveva cantato le nozze. Vinia Aurunculeia era morta, senza, forse, che si fosse avverato il preconio del poeta: «un Torquato piccolino voglio che dal grembo della sua mamma porgendo le manine dolcemente rida al babbo con socchiusa la boccuccia». Era morta giovane la gentile che pareva il fior del giacinto; e Manlio scrive domandando consolazione o una visita o qualche libro di poeti. Non scrive da Roma, pare: aveva domandato la quaestura nell’anno 692 che per me è presso a poco l’anno delle nozze: ora, nel 694 e 695, poteva essere in qualche provincia, o ad Asculum, donde era sua madre. Risponde il poeta, raccontando la disgrazia sua che gli impedisce di consolare l’altrui. Libri, non ne ha seco: sono a Roma. Andrebbe a trovarlo, se avesse modo di consolarlo o con parole sue o con

  1. Pag. 50-52 [XXXVIII] e [XXX].
  2. Pag. 52 [LXV].