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la poesia lirica in roma 125

nese. La sua poesia è «vita» descritta, e la vita ha vicino il sorriso alla lagrima e il sogghigno al dolore. Con gli endecasillabi che da Sappho derivò Catullo, dice Plinio il iuniore, iocamur ludimus, amamus dolemus, querimur irascimur, describimus aliquid modo pressius modo elatius1. A ciò era necessaria una lingua, come quella di Catullo; in cui si trova il provincialismo vivace (a es. basium) vicino all’elegante grecismo (come mnemosynum papyrus zonula); i nessi prosaici (quare, quandoquidem), le parole volgari (salaputium), le espressioni del comune conversare (bellus, tantum basiorum), presso quei cari diminutivi (come erano già in Laevio), ad es. solaciolum, misellus, turgiduli, versiculi molliculi, munuscula e vai dicendo, ora detti per vezzo, ora per pietà, ora per ispregio, ora per amore. L’anafora anima ogni tanto l’ingenua esposizione (Quicum ludere, quem — Quoi); la geminazione la riscalda (Non non hoc tibi, false, sic abibit); l’allitterazione la colorisce (bene ac beate); l’omeoteleuto la isveltisce (Diversae variae viae). Così ella è fresca, come fatta a voce da lui proprio, rinato o non mai morto. Non meraviglia che l’ira e l’amarezza avanzino gli opposti sentimenti: nella vita è così. E il più buono soffre più del men buono; e non è egli così generalmente mite come si vuol credere; poichè il mite comincia col perdonare internamente a sé stesso quello che perdona agli altri. Il che non è poi grande bontà. Catullo fu ammirato, abbiamo veduto e vedremo, dai suoi eguali, lodato già da Cornelio, lodato poi da Velleio Paterculo2. Egli fu

  1. Plin. Ep. IV, xiv, 3.
  2. Vell. Paterc. 2, 36.