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tesche che dovevano conquistare la Britannia e in Oriente quelle con le quali Cesare voleva vendicare la rotta di Crasso e assicurare per frontiera la linea dell’Euphrate. La morte del grand’uomo fece risorgere i tempi di Mario e Sulla. La rabbia civile penetrò nelle case distruggendo tutto ciò che v’è di sacro e santo. Gli uomini non fidarono più nei loro familiari, non contarono sulle cose loro, non sperarono nel domani. La disperazione aveva occupati gli animi di tutti. Dopo due anni di questo delirio, si trovarono a fronte a Philippi pili a pili, aquile ad aquile: pili ed aquile, destinate queste al Reno e alla Britannia, quelle all’Euphrate e ai Parthi. D’una schiera era parola d’ordine Libertas, e dell’altra, lo storico non dice. Quale che ella fosse, la vittoria di questa parte non doveva parer fare promesse credibili e palesi. Una tromba squillò da una parte e dall’altra. Le fanfare si levarono, comandando e incorando. Poi un gran silenzio. Di lì a poco, grida di guerra e cozzi d’armi e sibili di freccie e romba di frombole e il galoppo dei cavalli e lo schiacciarsi l’un con l’altro di due muri mobili di bronzo e di ferro. Quella giornata di sangue non bastò: la vittoria fu divisa. Ci volle un’altra battaglia nel medesimo luogo, perchè l’una delle due aquile, la repubblicana, fosse vinta e fuggisse1. Per un poco il mondo romano parve tornato come dopo la battaglia di Thapso o di Munda, sebbene tre fossero i dominatori e nessuno paresse avere l’anima e la mente del divo Iulio, e i mari fossero corsi da Sesto Pompeo, avanzato alla prima guerra.

  1. Dio Cassius XLVII 43 e segg.