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tare che l’eccellenza in un’arte, come questa, non avesse a essere considerata, da chi sperava raggiungerla, come fonte di onori e anche di ricchezza. E ciò senza bisogno d’asservirla al potere e d’avvilirla con l’adulazione e la menzogna. Orazio attese da principio a fare poesie belle e niente altro che belle; rinnovò la satira di Lucilio sperando di far riconoscere la sua superiorità su quel poeta tanto ammirato e lodato; mostrò gl’iambi veri di Archilocho al Lazio che non conosceva se non quelli alessandrini di Catullo. In ciò era tanta gloria che non sarebbe mancato chi fosse per togliere il poeta al suo scriptum quaestorium. Che egli non mirasse a conciliarsi l’affetto e l’ammirazione di questi più che di quelli, e specialmente di coloro, contro i quali aveva combattuto a Philippi, si comprende dal fatto che in una delle satire prime che scrisse, nella prima anzi, gli antichi sospettavano fosse morso Maecenate stesso, nella figura di Malthinus che passeggia mollemente con la tunica lunga e sciolta1, e che i suoi iambi sono diretti non contro una delle due parti contendenti, ma contro tutte e due, e mostrano che egli non augura a questa la vittoria su quella, ma dispera della patria straziata dagli uni e dagli altri. Che poi l’uomo, sorto a togliere dall’oscurità e dal bisogno il buon poeta, contasse sulla riconoscenza

  1. Sat. I, ii, 25. Vedi Porphyrione a questo verso: sub Malthini nomine quidam Maecenatem suspicantur significari. Vedi però Madvig Opusc. 1, pag. 64; vedi anche Cima ne’ suoi acuti Saggi, pag. 6; ma osserva ad ogni modo che se gli antichi indussero che Maltino fosse Maecenate dalla concordanza dell’abito e del portamento (Sen. Ep. 114), nessuno più di Orazio vedeva tale concordanza. Che se non satireggiò Maecenate in persona, egli derise certo il suo fare e il suo costume in altri.