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la poesia lirica in roma 141

di lui, e il poeta gliela dimostrasse, può sembrare cosa cattiva e turpe solo a chi non fece mai il bene o mai non lo riconobbe fatto. In tanto Orazio, diradatasi ancora quella nuvola minacciosa di guerra civile, continuava nel suo disegno di dare a Roma una satira più perfetta della Luciliana e degl’iambi più regolari dei Catulliani. Egli aveva, in questi come in quella, il modello davanti; ma s’ispirava a sentimenti propri. Cantò, per esempio, il suo amore disprezzato da Neaera con tale accento di verità, che si trova nella poesia persino il suo nome e un cenno alla sua condizione. Eppure si può riconoscervi qualche traccia di Catullo1. Un’altra poesia ci rivela anche meglio la vita e i pensieri di Flacco, a quei tempi. Il cielo è contratto e buio, piove e nevica, il mare mugghia, sibila la selva. Gli amici hanno le rughe nella fronte, come vecchi. Orazio incoraggia loro e sé stesso, esortando ad obliare nel vino e a sperare in un dio2.

Deus haec fortasse... In queste parole è forse espressa una segreta speranza del giovane tornato dall’Oriente con le penne tarpate, che non ha più il suo podere, non ha più la sua casa, e vive tristamente d’un lavoro che non fa per lui. Prima del 715 egli si era stretto in amicizia con Vergilio. Questi conosciuto già per le sue nugae, che egli poi chiamò

  1. I. [Ep.] III [XV]. Il nome (agnomen) è nel v. 12, a modo quasi di bisticcio. Solennemente pone il nomen in C. IV vi 45, Vatis Horati. Fuor di questi due luoghi, non è mai nelle poesie meliche e iambiche il suo nome o cognome o prenome. Catullo invece, abbiamo veduto, si nomina a ogni momento. Di imitazione Catulliana è dunque segno anche si quid in Flacco viri est.
  2. I. [Ep.] IV [XIII].