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pose: s’impose, a che, se non a rendere più sensibile a orecchie latine il metro greco? Così egli adatta alla sua lira Romana la più forte delle strofe Lesbie, quella che userà più e meglio. Di simile ispirazione, dello stesso metro, d’un uguale numero di versi (è caso?), è un canto bacchico1. Il poeta ha veduto tra erme rupi e boschi il dio che ammansa le fiere più selvaggie, persino il Cane della Morte, ed empie di forza portentosa le Maenadi. Ha ancora nell’orecchio le grida del tiaso, euhoe, ha ancora avanti gli occhi il dio terribile, eppure non armato che di tirso. È il dio che rende innocui i serpenti, il dio che pugnò contro i Giganti, che in pace e in guerra mostra ugualmente il suo potere. La theophaneia è per il poeta come una consacrazione: egli si sente ora capace di cantare di tutti i soggetti più misteriosi e grandiosi. Nell’ode che fu da lui preposta alle altre come proemio e che contiene il proposito e l’idealità del poeta; ode che non è necessario supporre composta l’ultima; afferma che la corona di edera lo pone tra gli dei, che le danze delle Ninfe e dei Satiri lo tengono lontano dal volgo2. Or qui egli si trova tra Satiri e Ninfe e ode i carmi dell’Ederigero. In tanto Orazio riabbracciava un compagno d’armi. Dopo dodici anni così pieni d’avvenimenti e mutamenti, rivide Pompeo Varo, il primo de’ suoi sodales, con cui si trovò a tanti pericoli e a tanti banchetti, per la Macedonia, l’Asia, la Thracia. Era un’alternativa di morte e vita, bella ora a ripensarla; che fu con-

  1. C. X [II-XIX].
  2. Carmina [I-1] a pag. 155.