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spoglia il vino nel filtro, e, s’è così breve la nostra via,
lunga non la voler tu la speranza. Ecco, parliamo e un po’
questa vita fuggì. L’oggi lo sai: non il domani, oh! no.

Postumo Postumo, beviamo, si deve morire! I monti sono bianchi di neve, le selve scricchiolano: si ponga legna sul focolare. Il vino toglie ogni affanno, se usato moderatamente; porta ogni guaio, se smodatamente bevuto1. E sono le donne d’Orazio tutte greche come dice il nome? tutte etère? Vi è bensì Pyrrha mutabile come il mare; guai a chi fida in quella bonaccia! Ma vi è la giovinetta che trema come la foglia da cui ha il nome. Vi è Barine, cui la perfidia dà bellezza e il tradimento aggiunge adoratori. Ma vi è Asterie, che piange, che ha il marito lontano, che ha un insidioso vicino; vi è Lyce che lascia piangere sulla soglia vietata ramatore. Il capolavoro è il dialogo di Lydia e di Orazio. Acme e Septimio parlano certo con parole e frasi più native e giulive. Ma se noi diciamo leggendo Catullo «come è vero», avanti Orazio esclamiamo «come è profondo». Là è la verità aperta a tutti, qua la verità scoperta dal poeta, È così: il poeta non deve sempre e soltanto ritrarre, deve rivelare, deve far sì che il lettore, dopo aver riconosciuta la verità della cosa rappresentata, abbia a soggiungere che era così facile a vedersi ma che egli non la vedeva. L’ode accennata, nona del libro

  1. Vedi le odi raccolte sotto il titolo IV. I convivii. L’amor di Glycera ([I-XIX] e [I-XXX] omesse) acquista con la [III-XIX] colore di verità, ma confrontando il v. 1 della [I-XIX] col v. 5 della [IV-I] e il tono e il metro, sospetto in tutte l’intenzione simbolica. So purtroppo che ai critici moderni ripugna credere a simboli e allegorie. Eppure Orazio e Vergilio ne hanno di evidenti!