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la poesia lirica in roma 167

È animato nel fine dall’amor di patria l’inno a Diana e ad Apollo. Latina invece quasi tutta e perciò più severa e grandiosa l’ode alla Fortuna, che si chiude con l’augurio del vate ai guerrieri di Roma che vanno a compiere il programma del divo Iulio1.

Nè gli amici ebbero da Orazio i peggiori de϶ suoi canti. Sia che finga di dirigere loro alate parole nel convivio, sia che mandi il suo dono poetico invece d’un vaso corinthio o di una patera cesellata, noi ammiriamo non solo l’artista, ma l’uomo; l’uomo che mostra ora un buon sorriso, ora una lagrima di compianto, ora festeggia, ora consola. Iccio parte per l’Oriente alla guerra; e il poeta lo saluta, tutto meravigliato di vedere un filosofo mutare i libri in armi, desideroso di ricchezze e di piaceri. Numida torna dall’Occidente, e il poeta lo festeggia con un banchetto pieno di letizia nel quale, tra il fumo degli incensi e il tintinno delle cetre, mostra al reduce ciò che egli ritrova di più dolce nella patria, gli amici e l’amata. Murena è fatto augure: non manca l’ode, nella quale circonda il nuovo augure delle persone che più ama, unite in ilare convivio; e tra queste è forse Maecenate, il marito di Terentia di lui sorella, co’ suoi dotti discorsi, ai quali si oppone il vocìo dei propinanti e lo squillo delle tibie e delle pive e delle lire2. La cornacchia chiama acqua: domani sarà burrasca, e il bosco sarà pieno di foglie cadute e il lido tutto nero d’alghe. O nobile Lamia, prepara per domani un buon fuoco e una bella cena! Il

  1. Vedi le odi raccolte sotto il titolo, VIII. Alla divinità.
  2. Ode decima nona del terzo: piena di dubbi.