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la poesia lirica in roma 169

l’uso moderato delle ricchezze. È un’ode di carattere generale, incolora se si vuole. Ma certo più che lo spendereccio e il ricco Sallustio vi si loda il generoso Proculeio che divise coi fratelli immiseriti le sue ricchezze, vi si loda il sapiente che disprezza i tesori. Nel fatto, Orazio era dalle sue relazioni con Maecenate e Augusto messo nella necessità di dedicare qualche canto a personaggi che non amava e non poteva stimare. Nessuno avrebbe potuto trarsi d’impiccio con più serena franchezza. Egli prendeva le mosse da qualche particolarità dell’uomo, la varia fortuna (doveva dire altrimenti) del girella Dellio, la fastosa ricchezza del molle Sallustio; e poi poetava per conto suo. Ne veniva fuori qualche cosa di meno piacevole per le orecchie di Sallustio e di Dellio? Lasciava correre: fingeva di non averci pensato, come quelli avrebbero finto di non capire. A Grospho, un ricco siciliano, loda la pace che non si compra con l’oro, e oppone alla ricchezza e agli sfoggi di lui la sua mediocrità e la sua poesia. Il barbiton modulato già dal civis di Lesbo non poteva risonare di adulazione e di menzogna. Il poeta sembra avvertirne nell’ode trigesima seconda del primo, che si deve porre a capo di questi canti ad amici. Ma coi poeti era più a suo agio. Non senza un sorrisetto ironico esorta Valgio, il poeta elegiaco d’amori, a cantar d’altro; non piove sempre, non venta sempre, non gela sempre. Non senza un sorrisetto malizioso consola Albio Tibullo, il sommo elegiaco, del tormento di seguire chi fugge. Il poeta mostra di amare molto Valgio e Tibullo, Valgio amico vecchio, Tibullo candido giudice dei suoi ser-