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l’opera sua certo dell’immortalità, e ricordava nella chiusa l’umile sua origine1, come nell’ultima ode composta prima della chiusa, pensava con sicura coscienza e grazioso rimpianto alla giovinezza sua fiera e al consolato di Planco; all’anno, cioè, in cui combatteva a Philippi ed era salvato dal dio dei poeti.

Orazio lasciò a questo punto il barbiton lesbio e attese a scrivere epistole. Nel 734 probabilmente pubblicava il primo libro di esse facendole precedere da un’introduzione e dedica a Maecenate. Prima dicta mihi, summa dicende camena: «O tu, il cui nome è a capo della mia prima opera e sarà a capo di questa che è l’ultima, vorresti di nuovo fare entrare nella lizza il gladiatore che ha già avuta la sua rudis? l’età non è più quella, la voglia è mutata». Così dice il poeta nel dichiarare di deporre i versi et cetera ludicra. Che cosa voleva Maecenate da Orazio? un altro libro d’iambi? Non parrebbe improbabile a chi ricordasse le sollecitazioni che gli faceva in gioventù, per averne finito quel ne finito quel promissum carmen2. Voleva un poema epico? un quarto libro di odi? di odi, come pare al Cima3, erotiche? Parrebbe non improbabile, poichè già melica soggettiva e poesia amorosa sono per gli antichi una cosa. Orazio delle fides, senza coro, dice essere officio iuvenum curas et libera vina referre4. Nè senza questo motivo egli pone a introduzione del quarto libro un’ode quasi simbolica in cui la facoltà d’amare è come identificata con quella di poetare,

  1. Vedi le due «Odi di Commiato».
  2. Pag. 148 XI nota.
  3. Saggi: pag. 54.
  4. Ars poetica v. 85.