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la poesia lirica in roma 189

era Plinio, non avrebbe avuto di che fare il viaggio. A Bilbili trovò una brava signora, che gli regalò una villa piena di belle cose. Ritornò poi a Roma? ritornò agli antichi amori, da cui si era allontanato quasi infastidito, eppure a malincuore? Tornò a rivedere il monumentino di Erotion, della sua bimba vernula? di quella bimba che gli disse, oh! per pochi anni, per cinque, babbo? e che egli raccomanda, morta, ai suoi propri genitori, Frontone e Flaccilla (se si può affermare), morti anche loro, perchè le facciano coraggio nel mondo di là? La fine della vita di Marziale è avvolta, come quella di Catullo, nell’ombra. Solo leggiamo ancora con commozione la lettera che della sua morte scrisse Plinio: Era un uomo d’ingegno e di spirito, e che scrivendo aveva bensì e sale e fiele, ma non meno ingenua bontà1.

E la lirica continuò stenta stenta nel mondo imperiale. Al tempo di Adriano troviamo, rilevato e notevole, Floro, che è forse tutt’uno con lo storico e con il retore dello stesso nome. Adriano stesso scriveva versi, e, argomentando da suoi cinque all’animula, versi Catulliani passati attraverso Maecenate. Poi abbiamo qualche resto di ludicra d’un poeta Falisco, Anniano, e di Apuleio; di Excellentia (storia Romana verseggiata in dimetri iambici) di Avito; di Lupercalia di Mariano. E via via. Ecco Septimio Sereno autore di opuscula ruralia in diversi e strani metri. Di questi tempi è l’ardente cantico «la veglia di Venere». Seppure non è da met-

  1. Pag. 353-366. Accenni alla propria vita. E vedi Plin. Ep. III xxi.