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fosse ritardata sino ad Ennio per la difficoltà stessa del metro (i bacchiaci e cretici sono più facili?) e non perchè il posto era preso. Chè, notando come la Comedia e Tragedia greca si presentassero subito al pubblico romano coi loro trimetri o tetrametri, coi loro cantici in peonii, mentre trovavano pure una satura indigena che doveva avere i suoi saturnii, e fossero così gradite e così trionfassero; noi dobbiamo credere che il saturnio fosse più radicato nell’epos, ossia nelle laudes clarorum virorum, che nella satura o in altro; e che quest’epos era per i suoi uditori e cultori più inviolabile nella sua forma consacrata dal tempo. Di che si deve ricavare che il traduttore dell’Odyssea non tradusse per nobili giovinetti, ma per il nobile popolo Romano che avendo già nelle sue laudes qualche avventura di Ulixes, di Circa, del Cocles o che so io, e credendo ancora che non estraneo alla fondazione di Roma fosse l’avventuroso navigatore amante di Circa o Marica, portò al cielo il buono scriba, che non essendo più dei Carmentes, sì dei Carmentarii, e avendo qualche cognizione del greco, ridusse meglio che traducesse, per loro, ridusse nella lingua, nel metro, nelle consuetudini religiose loro, il poema di Ulisse. Per tanto, come sarebbe assurdo attribuire a Livio la forma latina Ulixes o Ulisses per Odysseus (da Ὀλυσσεύς), a lui che poneva dacrimas per lacrimas1, a lui che inscrisse il poema forse Odissia e non altrimenti Olixea o Olyxea; così è soverchio dargli tutto il merito (peggio poi il biasimo) del volgarizzamento e adattamento dei nomi greci

  1. Fr. xix, nota.