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tendevano ad abbreviarla, come in homo, domo, viri, manu, loco, loci; e fu esempio ai posteriori. Anche le sillabe, usate da lui lunghe perchè lunghe, cui però la forma dell’accento poi abbreviò, si trovano qua e là con la misura Enniana: aquilā, agoeā, conlegā (?) dederītis, ponebāt, tinnīt, ponīt, infīt, sorōr, genitōr, Imbricitōr. Rimasero a lui fīere, adnūvit, fūimus, morīmur. Nè con lui cessò l’elisione finale dell’s. Egli era ben sottile giudice, il Rudino dai tre cuori; e a lui si deve la consuetudine di geminare le consonanti, che erano prima scritte scempie1. Quisquilie di grammatico? No: il grande artista che già della mente vede nel blocco la bella statua, ha bisogno per scoprirvela che siano buoni il mazzuolo e lo scalpello e le raspe e le lime.

Da questo lavorìo attento e minuzioso uscì perfetto il verso. Non solo; ma lo stile poetico ne uscì bello e formato. Fu veramente come se Omero cantasse nella lingua di quel poeta barbaro, di cui Plauto vedeva l’os columnatum. Tutto ciò che doveva parere di Omero più esclusivamente proprio, più irriducibile in altra lingua, il poeta Rudino lo rende così che qualche volta pare che in Italia siano nate quelle forme e formule. Siano ad esempio queste unioni tipiche di parole, unioni che Ennio salda a volte o con l’allitterazione o con l’omeoteleuto: vires vitaque, clamque palamque, dictum factumque, noctesque diesque, divumque hominumque. Chi direbbe che siano, come sono, la traduzione delle endiadi omeriche ψυχή τε μένος τε, ἢ ἀμφαδὸν ἠὲ κρυφηδόν, ἔργον ἔπος τε, νύκτας τε καὶ ἥματα, ἀνδρῶν τε θεῶν τε?

  1. Fest. 293: quam consuetudinem (di non geminare) Ennius mutavisse fertur, utpote Graecus graeco more usus.