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la poesia epica in roma 277

lio doveva essere una discesa agli inferi, è gran necessità ammettere che la favola non doveva scostarsi troppo da quella che noi leggiamo. E considerando il rapporto che è tra i versi 46 e 47 e i 26-33, dobbiamo anche persuaderci che le pugnae Caesaris dovevano nel poema avere una parte episodica, analoga a quella che hanno i bassorilievi della porta e le colonne del vestibolo nel tempio. Pure in medio Caesar erit. Sì, sarà il tempio della sua gloria il poema che canterà i principii remotissimi di Roma per opera del progenitore di Augusto, il quale Augusto è il nuovo Romolo, il nuovo Iulo; e avrà ancora, ma non più che come ornamenti, le guerre guerreggiate da lui nella sua terza, diciamo così, incarnazione. In che dunque Vergilio si può sospettare che modificasse il suo disegno giovanile? In questa sola consacrazione del poema ad Augusto, di cui allora intuiva la futura grandezza, sperando senza potere indovinare, che egli sarebbe stato vincitore di tutti i nemici interni ed esterni e il pacificatore del mondo. E questa consacrazione lo determinò, se prima non vi era ancora risoluto, a far di Enea l’eroe.

Vergilio si ripose alle res Romanae o gesta populi Romani o alla Aeneis o allo Aeneas, come egli stesso chiama il poema in una lettera ad Augusto1. Stese prima tutto il poema in prosa dividendolo sin d’allora in dodici libri; e ne verseggiava questa o quella parte secondo l’inspirazione del momento. Ogni tanto lasciava qualcosa d’incompiuto per non perdere la vena, e poneva, come diceva egli, dei

  1. Macr. Sat. I xxiv 11: de Aenea quidem meo etc.