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puntelli, tibicines, nel luogo dove avevano poi a essere le colonne massiccie: ne quid impetum moraretur quaedam imperfecta transmisit, alia levissimis verbis veluti fulsit, quos per iocum pro tibicinibus interponi aiebat ad sustinendum opus donec solidae columnae advenirent1. Nel che non isfugga quanto consueta fosse a Vergilio l’imagine che abbiamo veduta, del tempio, a designare il poema. Componeva pochi versi al giorno, come raccontava Vario in un libro che forse scrisse con Tucca ed altri amici e familiari di Vergilio, de ingenio moribusque eius2; e faceva come l’orsa che riduce poi leccando gli orsatti suoi, molto goffi sulle prime3. Il lavoro dunque procedeva lentamente, con grande passione di Augusto. Nel 729, questi che si trovava alla guerra cantabrica, domandava ogni tanto che sibi de Aeneide... vel prima carminis hypographe vel quodlibet colon mitteretur4. Ed a Vergilio pareva di essersi messo a tale impresa paene vitio mentis5, e studiava e studiava. Il poema aveva a riuscire pieno di dottrina antica: vi doveva aver luogo il ius pontificum, il ius augurale, l’inferorum deorum cultus, l’astrologia, la philosophia6: doveva, in una parola, essere veramente il tempio della idealità religiosa di Roma. Nello stesso tempo doveva riuscire un’opera non inferiore ai capolavori

  1. Don. 23, 24.
  2. Gell. XVII x.
  3. Quint. X iii 8 e Gell. l. c.
  4. Don. 31.
  5. Macr. I xxiv 11.
  6. Macr. I xxiv 16, III i 6, ii 7, I xxiv 18. Serv. Aen. vi 1, ii 57. Quint. I vii 18.