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286 antico sempre nuovo

Tucca, e altre che comprendevano anche i passi, religiosamente conservati, che in essa non avevano avuto luogo. Ora quando noi troviamo mancare in codici, siano pure i più autorevoli, anzi appunto in essi che è ragionevole supporre emanati dalla διόρθωσις Variana, qualche verso, o perchè ripetuto o per altro, noi dobbiamo credere più volentieri e più legittimamente che siano stati tolti dai due che avevano uffizio di togliere il superfluo, di quello che siano stati aggiunti o ripetuti da altri. Tanto più che tali ripetizioni erano certo nel gusto di Vergilio. E come?

Così. Egli intendeva l’arte epica, come forse non Vario, come forse nessun altro Romano, in un modo tutto suo e degno di lui e della sua anima di poeta. Egli aveva avanti i poemi di Omero. Egli sentiva la poesia di Omero quale emana in gran parte da quelli che un antico avrebbe chiamato difetti dell’autore e che noi crediamo inconvenienti derivati dalla composizione dei poemi stessi, varia e diversa. Credeva egli che la Musa che insegnava i μύθους (ricorda Platone nel Phaedone) non insegnasse i λόγους? Credeva egli che dopo l’inspirazione e l’invasamento del nume, fosse necessario il dormitare che Orazio trova in Omero? Può essere. Nel fatto esaminiamo il concilio degli dei nel libro X (1-117). In esso Giove vieta agli dei di prendere parte al combattimento dei mortali: rex Iuppiter omnibus idem, Fata viam invenient. Benissimo: ma Giove viola poi la legge da lui posta, lasciando che Giunone sospenda la morte di Turno con un suo artifizio, ammonendo Mezentio di entrare nella battaglia (606-32, 689-90). E Venere viola quella legge, scan-