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glottologi portano esempi a provare che, essendosi dileguata o affievolita in essi la penultima lunga, l’accento poteva cadere sulla terzultima anche quando la penultima era lunga. E sono: I le forme di perfetti sincopate, come curasti coirarunt delessent e simili, II le forme frutectum e salictum per fruticetum e salicetum, III iniquom, confessus, imberbis, che sarebbero inaequom, confassus, imbarbis, se non si fossero pronunziati un tempo con l’accento sulla prima, IV terrai, fidei, illius, che non sarebbero divenuti terrae, fidei, illius (con la penultima breve, queste due ultime) se non fosse esistita la pronunzia térrai, fídei, íllius (con la penultima lunga). Portano altri esempi a dimostrare, che l’accento cadeva un tempo anche sulla quart’ultima, se furono possibili forme come, I animal, II armiger, alacer, III duriter, IV legeris, V puertiae, balneum, naufragus, quindecim e simili: le quali tutte non sarebbero state possibili se non fossero esistite queste altre forme, ánimale, ármigerus, álaceris, dúriterum, légisise, puéritiae, bálineum, i, quínquedecem.

Or bene pare più logico spiegar queste forme (tralasciando quelle che vanno sotto la ormai antiquata spiegazione del passivo legeris per légisise) altrimenti. Invero è ammissibile che nello stesso tempo e dalla stessa persona si dicesse ora audiit, ora audívit? La mia è una povera glottologia: la glottologia del buon senso o, vogliam dire, del buon orecchio. Ebbene io dico che se il parlante diceva ora audiit ora audivit, doveva pronunziare in modo che audiit rassomigliasse ad audivit e audivit ad audiit. Proviamoci. Se poniamo l’ictus sulla prima di