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verso a provare la pronunzia energica dell’ictus (Ov. Met. VI 376):

          quamvis sint sub aqua, sub aqua maledicere tentant.

Sono i ranocchi che nello stagno fanno qua qua qua. L’intenzione del poeta è evidente; ma vana riuscirebbe, se come sulla prima di quamvis, non mettessimo l’accento sull’ultima di aqua tipetuta a bella posta. E vana riuscirebbe l’intenzione di Virgilio nel famoso verso (Aen. VIII 596)

          quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum

preso dall’Enniano (281 V. e cfr. 231):

          Consequitur: summo sonitu quatit ungula terram.

Il suono del galoppo lontano è dato non solo dall’andar dattilico, non solo dalla copia delle dentali, ma specialmente dal tu tu che nasce pronunziando sonitu con l’accento energico sull’ultima.

Così si ha sonitù, quatitù tanto simile al patatù, patatù imitativo dei nostri ragazzi.

Così, senza questo picchiar dell’arsi, di qual effetto sarebbe quell’accostamento del sostantivo e aggettivo consonante, che pur s’intuisce fatto apposta per dare il senso del grande e del solenne?

Il che è già in Ennio; del quale riferisco lo stupendo, per esempio, (531 V.):

          contremuit templum magnum Iovis altitonantis

in cui veramente il templum magnum trema, se le arsi sono pronunziate a dovere. Trema, come, alle medesime condizioni, il Virgiliano (Aen. X 115):