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codesto modo questi versi? Non cantarli! Dilli! Il fatto è che anche oggi il versificatore, verseggiando, si riferisce ora a una pronunzia forte, punteggiata, ora a una debole, corrente; e c’era l’Alfieri che s’industriava di far versi non cantabili (e ci riusciva poco o troppo!); e tutti quanti s’ingegnano, consapevoli o no, a quest’arte, di far sì che il ritmo ci sia e non paia, e ci paia e non sia quello. È un lavorìo continuo di sorprese. Questo è un bel verso, sonante: eh? eppure è un discorsino come vien viene. Questo è tutto un contorcimento di frasi spezzate, dure, ansimanti: eppure è un verso, vedete! In quello bisogna pronunziare un po’ negletto, che non guastiate, battendo troppo la misura, la naturalezza del discorso. In questo si deve pic-

    si trovino sì di frequente in cesura e questi in fine di verso, e facciano rima etc.» Io credo che avrebbero evitato quell’accoppiamento dell’epiteto e sostantivo, e avrebbero fatto a meno di metter tra l’uno e l’altro qualche parola. Come evitarono quella rima di durescit e liquescit nell’esametro, rima di flessione anch’essa, ma sempre sonante, mentre non evitarono l’altra, quale nel verso Ovidiano,
           denique nitentem contra elabiqtie volentem,
    perchè sonante solo con una delle due pronunzie, con quella grammaticale. Nè si dica che rifuggendo i latini dalla cesura trocaica avrebbero per ciò scansati quei versi come il Virgiliano Limus ut hic etc. Non si dica: la cesura trocaica avrebbe preso piede tra loro, come lo prese poi tra i Greci (es. Nonno). Io dico al mio caro Guido che se i latini lasciavano passare le rime alla fine dei due emistichi del pentametro, perchè non le avvertivano a cagione della pronunzia che era soltanto grammaticale, non avrebbero lasciate passare le rime frequentissime (se ne vedano molti esempi nell’opuscolo del Rasi) tra i due emistichi dell’esametro, quelle, dico, che si avvertivano e si avvertono solo con la detta pronunzia grammaticale, e non più con la musicale.