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altro nome si chiamava la dea de’ pastori, che inspirava ai Romani così semplici e miti usanze festive? Si chiamava la Dea Roma.

Ripensate le ferree legioni di Roma, i cui campi di battaglia si trovano in tutto il mondo antico, i cui castra son città sparse per le più fiorenti nazioni del giorno d’oggi, legioni che diffusero la lingua latina in tutto occidente e la lasciarono, eterno monumento di gloria e di civiltà, anche sulle rive del Danubio; ripensate le grandi battaglie di Roma (migliaia d’uomini che si accoltellano con urla selvaggie mescolate spesso al barrire degli elefanti); Canne, in cui morirono quarantasettemila e settecento Romani; Campi Raudii, in cui caddero centoquarantamila Cimbri; rappresentatevi al pensiero le sue strade, i suoi acquedotti, i suoi fori, i Suoi templi, i suoi anfiteatri; il Colosseo sonante di ruggiti e miagolii di leoni, pantere, tigri; il Colosseo con centinaia di gladiatori che si uccidevano con arte tra migliaia e migliaia d’occhi cupidi e di pollici rovesciati; ricordate quei consoli, quei dittatori, quegli imperatori; considerate insomma tutta quella storia che, quercia eterna, mette ancora rampolli vigorosi, poichè la terza Italia è rampollo di Roma; e poi ricordate quelle camellae di latte, quei liba di miglio, quei fuochi di strame... Ecco: io non so qual poeta possa mai rendere adeguatamente un tale contrasto. I cittadini Romani, dopo le grandi guerre esterne e civili, in presenza di tanti trofei, archi, edifici, in questo giorno XI Kal. Maias pensavano a quando il Palatino era una macchia e nel Foro mugghiavano gli armenti e belavano i greggi. Pensavano a Romolo, che segnava con l’aratro il