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la poesia lirica in roma 77

     meschino fisso all’amor mio
senza più anima sto, con quest’ossa passate fuor fuori
     da doglie in causa degli dei1.

E ripensa come e quale la vide:

In mano aveva un ramicel di mortola
e rose del rosaio e si godea, così,
e i suoi capelli spalle e dorso ombravano2.

E rifà la storia del tradimento, raccontando la favola della volpe e dell’aquila. L’aquila dall’alto si ride del povero animale, a cui ha mangiato i figlioli; ma quello si rivolge a Zeus:

O Giove, o Giove padre, sopra il cielo hai tu
     possanza, e vedi ciò ch’uom fa
d’ingiusto e giusto, e il bene e il male sta
     pur delle bestie a cuore a te3.

E Zeus vendica l’impotente. Restano ancora le solenni parole con cui il poeta si rivolge a Lycambe: «Hai violato il giuramento grande: il sale e la mensa». Anche in Simonide (o meglio Semonide) d’Amorgo si trova la nota fondamentale di questa poesia: egli anzi raccoglie e svolge nella sua lunga «Satira», i motteggi sulle donne, paragonate a bestie, motteggi che facevano le spese dei comoi4. Ma in Hipponacte, l’inventore dell’iambo zoppo, la situazione del poeta iambico è più chiara e compita: egli è il brutto, il misero, lo spregiato; ha freddo

  1. Arch. 84.
  2. id. 29.
  3. id. 86, 87, 88.
  4. Simonides Amorginus 7 B. cfr. Phocylides 3.