Pagina:Pascoli - Traduzioni e riduzioni, 1923.djvu/212

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Lava l’arco ed il corno alle fontane.
S’imbianca al sole un infinito ossame.

     Re Carlo è pien di noia e di dolore,
e il suo destriero sorïano ancora.
Re Carlo piange, piange dal martoro
d’aver perduto i suoi Pari, i suoi prodi,
i suoi migliori, il suo gentil nepote,
e la battaglia! Ed anche più s’accora
che ci faranno su tanti racconti,
ci caveranno su tante canzoni;
cent’anni se ne parlerà nei monti:
morti per mano di villan’ guasconi!

     Intanto, va. Dopo tre dì, si vede
sopra l’ultima cima di Pirene.
Allora guarda nello spazio immenso.
Lontano, scorge bianca sulla vetta
d’un monte, una città, gagliardo arnese
di guerra, e sono due torri a vedere
ad ogni porta; a noverar, ben trenta
torri maestre con lucidi tetti
di stagno; e v’ha petriere saracene
grondanti ancor di resina e di pece;
ed un castello in mezzo, così bello,
che a dipingerlo un dì non basterebbe,
un dì di luglio. Il piombo afforza i merli.
Un balestriere ad ogni balestriera
veglia alla posta da mattina a sera.

I doccioni di mostri hanno le gole:
sopra il più alto suo colmigno rosso
è un dïamante grande come il sole,
che da tre leghe occhio fissar non può.
A manca l’ampio azzurreggiar dell’onde,