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1935

6 ottobre.

Che qualcuna delle ultime poesie sia convincente, non toglie importanza al fatto che le compongo con sempre maggiore indifferenza e riluttanza. Nemmeno importa molto che la gioia inventiva mi riesca qualche volta oltremodo acuta. Le due cose, messe insieme, si spiegano coll’acquisita disinvoltura metrica, che toglie il gusto di scavare da un materiale informe, e insieme interessi miei di vita pratica che aggiungono un’esaltazione passionale alla meditazione su certune poesie.

Conta invece questo, che sempre piú inutile e indegno mi pare lo sforzo; e piú feconda che non l’insistenza su queste corde, la ricerca, da tempo concepita, di nuove cose da dire e quindi nuove forme da foggiare. Poiché la tensione alla poesia è data al suo inizio dall’ansia di realtà spirituali ignote, presentite come possibili. Un’ultima difesa contro la smania di tentativi violenti rinnovatori la trovo nella convinzione superba che l’apparente monotonia e severità del mezzo, che ormai possiedo, sia ancora per essere il miglior filtro d’ogni mia avventura spirituale. Ma gli esempi storici — se pure in materia di creatività spirituale è lecito fermarsi agli esempi di qualunque sorta — sono tutti contro di me.

Comunque, c’era un tempo che avevo ben vivo nella mente un ammasso passionale e semplicissimo di materia, sostanza della mia esperienza, da ridurre a chiarezza e determinazione organiche nel poetare. E ogni mio tentativo, sottilmente ma inevitabilmente, si riconnetteva a questo fondo e mai mi parve di sviarmi per stravagante che fosse il nucleo di ogni nuova poesia. Sentivo di comporre qualcosa, che superava sempre il pezzo (del momento) (attuale).

Venne il giorno che l’ammasso vitale fu tutto assunto nell’ope-