Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/161

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del torchio per parlare tranquilli. — Talino e il Pa’ voltano il letame, — mi dice, — poi vogliono andare a Monticello con te. Cos’è che avete fatto stanotte? — Aveva gli occhi rossi e piú attenti che mai.

— È sempre lo stesso, Talino, — le dico. — Ma tu Gisella sta’ attenta. Se gli dài sempre sulle unghie, ti metti nei danni. Lo sai che è un bestione.

Gisella mi guardava come se fossi io Talino e ce l’avesse anche con me.

Le faccio allora: — Stai bene, vestita cosí. Sei già andata a Monticello?

Lei rideva. — Lo sai che ora è? Ho già messo su l’acqua della polenta.

— Oggi c’è la polenta? — le faccio. E le prendo una mano. Allora mi viene vicino stretta, per farsi abbracciare, e mi guardava fisso come se la sua faccia non fosse la sua e volesse vedere come facevo a baciargliela.

A me le donne in quel momento fanno compassione. Non so perché ma mi fanno compassione. Gisella meno, perché capivo ch’era pronta, se le avessi detto «lascia perdere», a ridermi in faccia e a rispondermi. Ma anche lei si vedeva che aveva paura che non la volessi.

— Sei sempre d’accordo, Gisella? — le dico piano.

— Ma tu un giorno o l’altro ritorni a Torino, — diceva lei. — Qui non è il tuo paese.

— Dove c’è una bella ragazza è sempre il mio paese, sta’ tranquilla, — le dico, e vedo che è contenta.


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