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Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/52

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Tante volte l’aveva pensato: il suo sforzo era soltanto d’isolarlo, di drizzarlo come una torre in un deserto. Spietatezza era il pensiero, solitudine, impassibile clausura dell’animo a ogni parola, a ogni lusinga piú segreta.

Si fermò ansimante, col piede su una sedia e il mento sul pugno, e fissò l’armadio di Elena senza fermarcisi. Poi, ci avrebbe pensato. Ogni dolcezza, ogni contatto, ogni abbandono, andava serrato nel cuore come in un carcere e disciplinato come un vizio, e piú nulla doveva apparire all’esterno, alla coscienza. Piú nulla doveva dipendere dall’esterno: né le cose né gli altri dovevano potere piú nulla.

Stefano strinse le labbra con una smorfia, perché sentiva la forza crescergli dentro amara e feconda. Non doveva piú credere a nessuna speranza, ma prevenire ogni dolore accettandolo e divorandolo nell’isolamento. Considerarsi sempre in carcere. Abbassò dalla sedia la gamba indolenzita e riprese a camminare, sorridendo di se stesso che aveva dovuto atteggiarsi in quel modo per ridarsi una forza.

L’armadietto di Elena era là. Ecco la sua poca roba riordinata amorosamente su fogli di giornale spiegati. Stefano ricordò la sera in cui aveva detto a Giannino che non si fidava a disfare la valigia, sentendosi di passaggio. Le immagini di Giannino, di Concia e degli altri, l’immagine del mare e delle pareti invisibili, le avrebbe ancora serrate nel cuore e godute in silenzio. Ma Elena non era purtroppo un’immagine, Elena era un corpo: un corpo vivo, quotidiano, insopprimibile, come il suo.

Stefano avrebbe ora dovuto ringraziarla per la gelosa tenerezza di quel pensiero. Ma con Elena Stefano non amava parlare; quella sorda tristezza che nasceva dalla loro intimità gliela faceva odiare e ripensare nei gesti piú sciatti. Se Elena avesse osato un giorno un gesto, una parola, di vero possesso, Stefano l’avrebbe strappata da sé. E anche quel piacere che si rinnovava tra loro al mattino e che Elena mostrava di ritenere futile, pure godendolo come cosa dovuta, lo snervava e incatenava troppo al suo carcere. Bisognava isolarlo e togliergli ogni abbandono.

L’armadietto era bello e sapeva di casa, e Stefano lo carezzò con la mano per sdebitarsi verso Elena, cercando che cosa dirle.


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