Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 1, Einaudi, 1961.djvu/72

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spremute da un panno torcendolo, e Stefano, a tanta dolcezza, mormorò abbandonandosi: — Ti compiango, mammina.

Il mare che gli era traballato innanzi alle pupille, tornò netto nel bruciore di quelle lacrime assurde, tanto che gli riportò la sensazione estiva dell’onda salsa infranta negli occhi. E allora li chiuse e capí che l’orgasmo non era cessato.

Stefano riattraversò la sabbia e menò un calcio a una ceppaia di ficodindia, e decise di allontanarsi dal mare perché forse era il mare che gli dava sul sangue e sui nervi. Pensò che forse da mesi la salsedine, i fichi, i succhi di quella terra, gli mordevano il sangue tirandolo a sé.

Prese la strada dell’argine, che correva lungo il mare, dov’era la casa di Concia. Si fermò quasi subito perché quella strada l’aveva troppo percorsa nei piú furenti dei suoi dolori, per osare percorrerla adesso. Tornò indietro e si mise per lo stradale che girava sotto il poggio, verso l’interno, allontanandosi dal mare. Laggiú c’erano almeno degli alberi.

In realtà Stefano non aveva che pensare, né un vero dolore né un’ansia. Ma provava un disagio, un’inquietudine, sulla strada sassosa, per la sua insofferenza mentre pure il suo stato era umano e tranquillo. Giannino sí, era in condizione di soffrire, e forse Giannino non smaniava come lui.

Guardando le ombre delle nuvole sui campi, Stefano capí per la prima volta che Giannino era in carcere. Ebbe un ricordo quasi fisico, preciso, di un comando brusco e di uno sbattito di porte, e della porta richiusa sul naso, dopo una voce, e di qualcuno che passava in vece sua nel corridoio. Era la stessa giornata di nuvole bianche che, uniche nel cielo dietro l’inferriata, gli avevano fatto sognare le loro ombre sulla terra invisibile. Girò gli occhi sui campi, sugli alberi brulli lontano, per sentire la sua libertà.

Forse Giannino pensava a quei campi, a quello stesso orizzonte, e avrebbe dato chi sa quanto per essere lui, per camminare sotto il cielo come lui. Ma era soltanto il primo giorno e forse Giannino rideva e la cella non era una cella perché d’istante in istante era possibile che si chiarisse un errore e gli aprissero la porta e gli dicessero d’uscire. O forse Giannino avrebbe riso anche fra un anno, dietro la stessa inferriata: era tipo di farlo.

In una banda di sole si avanzava un ometto dalla lunga casacca scura, con passo traballante. Scendeva dal paese antico, s’appog-


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