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Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/161

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Io guardavo i ciottoli e indovinavo le teste ai balconi.

— ... stanotte lei l’ha visto contento. Quand’è ubriaco mi sopporta ancora, ma si ubriaca e fa di peggio per sfuggirmi. Ormai... — qui la voce si fece piú ansante, — noi viviamo alla giornata.

Non mi lasciò il braccio neanche entrando, quando sollevai la portiera di pendagli tintinnanti. Nell’ombra Poli e Pieretto confabulavano, e Pieretto gridò: — Che si mangia?

Vennero uova al tegame e ciliege. Io cercavo di non guardare Rosalba. Poli rompendo il pane continuò il discorso.

— Tanto piú si decide, quanto piú si è caduti. Si tocca il fondo. Quando tutto è perduto si ritrova noi stessi.

Pieretto rideva. — Un ubriaco è un ubriaco, — disse. — Non sceglie piú né la droga né il vino. Ha scelto una volta, milioni di anni prima, quando ha gridato il primo evviva.

— C’è un’innocenza, — disse Poli, — una chiarezza che viene dal fondo...

Rosalba taceva, non osavo guardarla.

— Io ti dico, — interruppe Pieretto, — che se ti sei dimenticato l’ora stanotte, è perché avevi perso la scelta.

— Ma questa innocenza io la cerco, — disse Poli balbettando testardo, — piú la conosco quanto piú mi convinco di esser vile e di esser uomo. Sei o no persuaso che lo stato dell’uomo è debolezza? Come puoi sollevarti se prima non precipiti?

Rosalba mangiucchiava ciliege e taceva. Pieretto scosse il capo varie volte e disse: — No — . Io pensavo al discorso di prima, e non tanto alle parole quanto alla voce e alla stretta del braccio. Gli occhi mi bruciavano dalla stanchezza. Quando ci alzammo per andarcene, le gettai un’occhiata. Mi parve calma, insonnolita.


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