Pagina:Pavese - Romanzi Vol. 2, Einaudi, 1961.djvu/235

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XXIII.

Quando a mezza mattina arrivarono i tre sul biroccio, ero rauco e sbalordito. Tutta la notte avevamo parlato della morte di Rosalba. Poli non ne sapeva gran che. Si era uccisa in quella pensione di suore — veleno, un narcotico — quando lui era partito per il mare. Avevamo passeggiato sotto i pini, contornato la vasca, e parlato parlato a voce bassa fino a giorno. Poli diceva che la morte non è nulla, non siamo noi che la facciamo, dentro di noi c’è gioia e pace e nient’altro.

Gli chiesi allora se la coca faceva parte della pace dell’anima. Mi rispose che tutti adoperiamo qualche droga, dal vino ai sonniferi, dal nudismo alle crudeltà della caccia. — Cosa c’entra il nudismo? — C’entrava sí: c’è chi esce nudo tra la gente per il gusto di abbrutirsi e violare una norma umana.

Non bastò la notte a fargli ammettere che tra un suicidio e la morte per malattia o per disgrazia c’è un salto. Poli parlava di Rosalba con la voce esitante di un ragazzo commosso; parlava intenerito di quando era stato lui per morire; nessuno aveva colpa di niente; Rosalba era morta; stavano bene tutti e due.

Tutta la notte, quasi a dargli ragione, bevemmo, litigammo e fumammo. Il primo sole ci trovò in poltrona, e la Pinotta scarmigliata ci faceva il caffè. Tra gli aghi dei pini traspariva la luna. Adesso parlavamo di caccia, delle povere bestie: Poli diceva che di tutte le droghe non capiva il sangue sparso; era questo che Rosalba gli aveva insegnato, il sangue ha qualcosa di diabolico. — Adesso Oreste vuole andare a caccia. Non capisce che un uomo può avere ripugnanze. Ci vada, e lasci gli altri tranquilli...

La luce del giorno mi calmò un poco, ma la tensione, la stan-


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