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tempo dovuto smettere il mestiere. Invece cosí può continuare impunito...
— Non è divertente, — disse Rosetta a mezza voce. — Non è divertente e non è generoso. Un tempo eravate amici.
— Facciamola bere, facciamola bere, — gridò Febo. — Poi Rosetta ci racconta di quando tutti erano amici con tutti...
Mangiammo come si mangia in questi posti, e bevemmo altrettanto. L’oste ci suggeriva misteriosi vini vecchi di quelle parti; con Febo si strizzavano l’occhio; dopo ogni piatto s’informava se era stato di nostro gradimento. Persino Rosetta s’animò e scherzava; di Loris non si parlò piú. Scherzammo invece sui gitanti, che a quell’ora mangiavano freddo e carne in scatola nel rifugio progettato da Febo, e Febo disse a bocca piena: — Almeno si trovano in un ambiente di gusto.
— Ci fosse Morelli con noi, — disse Momina. — Queste cose gli piacciono.
— Chi è Morelli? — disse Rosetta.
— È un vecchio signore che con Clelia si parlano, — disse Momina allegramente. — Ma sí, lo conosci...
— Oh insomma, — gridò Febo, — tutti i piú belli non ci sono. Prendete chi avete.
Venne l’ora che dovevano chiudere e l’oste, con molti sorrisi, ci mise fuori. Ci fu di buono che lasciammo a Febo di pagarlo a parole. Volevo far io ma Momina mi disse: — Niente affatto. Ci costa già troppi soldi, costui.
Portammo Rosetta a Montalto. La madre era ancora in piedi che l’aspettava. Ci accolse lacrimosa e, mentre Febo nell’automobile continuava a tirarmi indietro, Momina fuori parlamentava e si fece promettere che l’indomani sarebbero tornate a Torino. Salutai Rosetta che mi diede la mano per lo sportello e un’occhiata scontrosa, riconoscente. Ripartimmo.
— Perché, — disse Febo, sporgendo la testa fra le nostre spalle, — perché non ci hanno invitato a dormire alla villa?
— Troppe donne per un uomo solo, — disse Momina.
— Spilorce, — lui disse. — Almeno fermiamoci a Ivrea. Conosco un albergo...
Non me l’aspettavo, ma Momina accettò. — Domani torniamo a Montalto, — mi disse. — Se andavamo al rifugio, stavamo fuori, no?
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